Modifica dell’art. 1 della Costituzione?
L’ idea di modificare l’art. 1 della Costituzione aggiungendo la centralità del Parlamento come secondo elemento fondativo della Repubblica dopo il lavoro sembra finita nel dimenticatoio. Meglio così, perché è una proposta da respingere in toto.
Innanzi tutto perché mette insieme concetti diversi. Il lavoro è un valore che ci parla del primato della persona, nel senso dei suoi meriti e dei suoi talenti, contrapposti ai privilegi di sangue e dunque rappresenta una scelta di campo delle nostre istituzioni. Fondare la nostra convivenza sul lavoro significa valorizzare la persona umana e dare una forte e particolare connotazione alla nostra vita sociale. Diversa è invece la centralità del Parlamento, caratteristica legata ad uno specifico modello istituzionale: quello parlamentare. Un’opzione politica e non certo un elemento dirimente dei valori su cui si fonda la società.
A livello di valori, più che il modello politico (parlamentare, presidenziale, ecc..), entra semmai in gioco la democrazia. Essa sì che è un valore nel senso che la presenza di istituzioni democratiche dà realmente un senso alla qualità del nostro vivere sociale. E sotto questo aspetto l’art. 1 della nostra Carta costituzionale è sufficientemente chiaro in quanto, non a caso, parla di “Repubblica democratica”.
Mescolare queste due diverse centralità: il lavoro e il Parlamento significa dunque fare una gran confusione. Stupisce poi che questa proposta giungesse da un deputato del Popolo della Libertà, il cui leader, l’attuale presidente del Consiglio, considera, da sempre, il Parlamento un freno all’azione governativa (nella migliore delle ipotesi) se non addirittura un parco buoi (nella peggiore). Da cosa deriva quindi questa improvvisa folgorazione pidiellina per la centralità parlamentare?
Viene il sospetto che tutto ciò sia legato alla volontà di riproporre, sotto mentite spoglie costituzionali, la contrapposizione tra sovranità popolare ed organi di garanzia, uno dei classici leit motiv berlusconiani.
Sappiamo fin troppo bene infatti che il nostro Premier non ammette che alcun organo di garanzia (Corte costituzionale, Magistratura, ecc…) possa controllare l’operato del potere espresso dalla sovranità popolare. In realtà qui emerge un modo distorto di intendere questa sovranità, che finisce per tracimare nel populismo.
In quest’ottica la centralità del Parlamento diventa il cavallo di Troia di un sistema plebiscitario in cui i cittadini votano ogni cinque anni e poi chi vince le elezioni fa quello che vuole. Una pseudo democrazia in cui l’elettore infila una scheda nell’urna e poi esaurisce lì il proprio compito e vede scemare qualsiasi altro diritto. La volontà popolare una volta che ha espresso i propri rappresentanti genera un potere supremo ed invalicabile che annichilisce tutte le altre istituzioni.
La legge del Parlamento diviene onnipotente senza alcun limite neppure quello della sua costituzionalità, ovvero la non contrarietà ai principi fondativi dell’ordinamento. A quel punto, forzando la mano, potrebbero venir persino approvate delle norme in violazione di qualsiasi diritto; la forma prevarrebbe sulla sostanza e la democrazia verrebbe ridotta a simulacro.
La legislazione non si troverebbe infatti inserita in una cornice di principi fondamentali di cui la Carta costituzionale si fa garante, ma sarebbe il solo frutto della volontà parlamentare che poi, in definitiva, significa quella della maggioranza. Ecco allora la grande insidia: dietro la parvenza della centralità del Parlamento, vi è la dittatura della maggioranza parlamentare.
Qualcosa di totalmente contrario all’essenza stessa della democrazia che, invece, vive di pesi e contrappesi a tutela delle minoranze, a perenne argine dello strapotere di qualsiasi maggioranza nonché a presidio dei valori che ne fondano l’ordinamento.
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