Noveglia, dove finisce il mondo…
Ci sono luoghi nascosti sull’Appennino, difficili da raggiungere e fuori dalle grandi strade, che celano storie meravigliose e personaggi incredibili.
Queste storie bisogna scriverle, perché non vadano perdute con la morte degli anziani, o la corsa dei giovani verso il futuro e la complicità dell’oblio del tempo, che tutto ricopre con la sua patina impalpabile.
Noveglia è uno di questi luoghi: non ci si arriva per caso; non va cercato su internet, si troverebbero pochissime notizie. E’ una borgata sparsa, una delle tante borgate del comune di Bardi, città che fu capitale della Signoria dei Landi, in una terra aspra dell’Appennino compresa fra Emilia, Liguria e Toscana, dove i confini non esistono.
Non è un caso che il territorio circostante si chiami Val Noveglia, la valle di un paese che non esiste.
Noveglia è una delle tante frazioni del comune di Bardi, in provincia di Parma, dove un imponente castello la storia dello Stato della nobile famiglia dei Landi.
Sono arrivato qui per la prima volta nel 2014, dopo aver letto un libro di Paolo Rumiz, “La leggenda dei monti naviganti”.
“La notte m’inghiotte in un villaggio di nome Noveglia, con un maledetto vento di mare che rimesta temporali. Davanti alla locanda “Geppetto”, un cuoco che gli somiglia mi accoglie così: “Benvenuto nel posto dove il mondo finisce”. Sembra un sinistro avvertimento. Invece è il prologo di un’accoglienza da re. “La gente scappa da qui e non sa cosa perde”, spiega scodellando una pizza al pesto. “Io vengo dall’inferno romagnolo e qui ho ritrovato la vita. Sa cosa le dico? Pianura mai più”. Come la balena, sembra uscito anche lui dalla storia di Collodi. E tu ti senti, fatalmente, Pinocchio”.
“Qui il mondo finisce perché non si va da nessuna parte, tutte le strade finiscono”.
Lo diceva Geppetto, l’oste della Trattoria della Due Sorelle, e lo raccontava allo scrittore famoso arrivato con una Topolino, che avrebbe immortalato quella figura istrionesca e quasi mitologica in un meraviglioso libro di viaggio lento attraverso l’Italia delle montagne, quella che rischia di scomparire.
Dopo una cena sotto le stelle, al termine della quale Geppetto (che mi disse di avere 70 anni più le festività) portava il suo liquore fra i commensali, vidi le lucciole volteggiare sui prati illuminati soltanto dalla luna.
Quella sera cominciai a scrivere una storia, poi l’idea dei viaggi e della ricerca mi ha condotto altrove, sui monti della Val Maira e a Elva, sulle orme di Hans Clemer. A Noveglia devo la prima ispirazione di quella scrittura, nelle sere sotto le stelle e in un silenzio incontaminato; è un debito d’amore e di coscienza che riconosco con piacere.
Quella notte dormii al b&b Prati dei Campassi, ospite di Iginio Prati, che quest’anno si è lasciato finalmente intervistare, per raccontarmi la sua vita e i motivi che lo hanno spinto su queste colline.
Da quella prima volta, una vera emozione per me, ci sono tornato ogni due anni.
Nel mio nuovo viaggio, ho lasciato a Chiavari l’autostrada e il traffico congestionato dai camion, poi ho iniziato a risalire le strade dell’Appennino.
“Intra Siestri e Chiaveri s’adima una fiumana bella, e dal suo nome lo titol del mio sangue fa cima” (Dante, Purgatorio, XIX, 100-101).
E’ bella la strada che conduce verso Bardi, con le dolci ondulazioni dell’Appennino e nomi di paesi che sembrano uscire dal Medioevo o da favole desuete.
Il Passo di Cento Croci è lo spartiacque naturale fra Liguria ed Emilia, la separazione fra la valle del Vara e quella del Taro. Un cippo ricorda il confine fra la Repubblica di Genova e il Ducato di Parma e Piacenza. Una tradizione orale vuole che il Passo derivi il suo nome dalle numerose croci un tempo collocate a ricordo dei viandanti assassinati dopo essere stati rapinati dai briganti che infestavano il territorio.
E finalmente sono in Emilia!
Attraversate Tarsogno e Borgo Val di Taro mi dirigo verso Bardi, con una strada completamente in mezzo a boschi e prati. Superato da ultimo il Passo di Santa Donna, inizio la discesa che mi condurrà a Noveglia.
Luglio 2020 segna il mio quarto approdo, e le scoperte non mancano mai!
Geppetto non abita più qui, se ne è andato in punta di piedi come in una favole moderna, la trattoria ha cambiato gestione e ha mantenuto l’impronta locale.
Dopo un’altra cena sotto le stelle, ho rivisto altre lucciole volteggiare sui prati.
La Val Noveglia e le Valli del Ceno e del Taro hanno le loro leggende, come ogni zona dell’Appennino.
Una leggenda dell’Alta Val Ceno racconta che quando San Colombano e Sant’Antonio decisero “d’amore e d’accordo” di fissare il confine tra le loro Diocesi, stabilirono di alzarsi al mattino al canto del gallo e di andarsi incontro rispettivamente da Bobbio e da Piacenza.
In luogo si fossero incontrati, lì avrebbero fissato i confini del loro territorio. San Colombano lasciò il gallo senza cena e lo spruzzò d’acqua (lo dice la leggenda, a noi non resta che domandarci perché…). Sant’Antonio, invece, rimpinzò il suo gallo di frumento, aggiungendovi qualche granellino di pepe.
Il gallo di San Colombano dormì tutta la notte con la testa sotto l’ala e si svegliò tardi. Quello di Sant’Antonio si svegliò prima che facesse giorno.
I due Santi si posero in cammino e si incontrarono al fiume Trebbia, poco lontano dalla residenza di San Colombano. Qui furono stabiliti i termini di confine, con notevole vantaggio a favore del Santo piacentino.
Si racconta anche che Sant’Antonio usasse il cavallo e che San Colombano, per amor di pace, rinunciasse a denunciare la scorrettezza per non squalificare la gara.
Questa leggenda è stata trascritta dal periodico “La Giovane Montagna” del 15 febbraio 1943 e raccolta da Giuseppe Conti in una pregevole antologia.
Dalla voce di un abitante ho raccolto una storia che nessuno ha ancora scritto.
Luigi Spagna è stato il meccanico di Noveglia per decenni: classe 1943, nonostante l’età continua ad essere a disposizione dei residenti per qualunque lavoro tecnico, non nega a nessuno un attrezzo della sua officina.
Lo incontro alla bar della Trattoria Val Noveglia.
Mi hanno indirizzato a lui perché Luigi Spagna è la memoria storica del luogo; mi racconta che a metà dell’Ottocento una frana ha smosso l’intera frazione di Predario (qui si pronuncia Predarìo). C’era una fontana che fungeva anche da abbeveratoio per gli animali: una mattina un abitante la vide secca e pensò ci fosse una frana in corso, a deviare il corso dell’acqua. Quell’abitante fu il primo a dare l’allarme: nello smottamento progressivo quasi tutte le case andarono distrutte, ci fu qualche morto e per sei giorni un gallo continuò a cantare, sepolto sotto le macerie di una casa. Poi tacque anche lui e il silenzio scese per sempre sulla frazione devastata.
Una seconda versione vuole che un contadino non riuscisse ad aprire la porta di casa sua la mattina; la visione della volta abbassata gli fece dubitare di una frana, e da lui la voce corsa di casa in casa.
Le leggende che si raccontavano la sera nelle aie o al calore delle stalle, oggi non vanno più di moda, soppiantate da cellulari e tablet.
A me piace ancora ricercarle, dalla diretta voce degli anziani; in Appennino hanno un sapore diverso, sfumano lentamente all’orizzonte come il sole che scende dietro l’orizzonte infinito di colline e montagne.
Per entrare nella storia recente di Noveglia, vado alla ricerca di don Luigi Brigati, parroco di Noveglia, che ha scritto le sue memorie di pastore; raggiungo la chiesa della frazione Monastero. Suono alla casa parrocchiale e dopo una breve attesa mi apre un uomo anziano.
“Lei è il parroco?” domando.
“Sono io, da tanti anni”.
Con squisito senso di accoglienza mi fa entrare e mi accompagna subito in chiesa, transennata in più punti, a causa di due grosse crepe nella muratura. Molti lavori eseguiti hanno sostituito la pietra originaria con il marmo che usava nel secondo dopoguerra, togliendo il senso di storia che l’edificio era riuscito a mantenere.
Quando rientriamo in canonica, don Luigi mi regala l’ultima copia disponibile del suo libro “Mezzo secolo in Val Noveglia” (memorie e ricordi di 50 anni di sacerdozio).
Apprendo che la chiesa è già citata, come Monastero di San Michele in Gravago, all’interno del Privilegio di Liutprando, Re dei Longobardi, che lo conferma sotto la giurisdizione del Vescovo di Piacenza, insieme al monastero di Tolla. I successivi diplomi dei Re longobardi Ildebrando (del 744) e di Rachis (del 746) confermarono il passaggio al Vescovo di Piacenza del monastero regio e rurale di Gravago, insieme a quelli di Fiorenzuola, Val di Tolla, e del monastero cittadino dei Santi Tommaso e Siro; un rector li reggeva in nome del Vescovo. La presenza di una cella monastica è riconfermata in un documento dell’anno 841 (“de cella monasterii Gravaco”…) all’interno di una permuta di terre sottoscritta a Carpaneto (“in curte Carpaneto”) tra il Vescovo di Piacenza, Seufredo, e un franco di nome Arnone.
Il monastero, ai tempi dell’Abate Attala, era stato fondato dai monaci bobbiesi di San Colombano e intitolato a San Michele Arcangelo. E’ citato anche nelle “Rationes Decimarum” piacentine e bobbiesi, con gli elenchi delle decime che venivano riscosse dagli enti ecclesiastici.
Il monastero di Gravago, che si trovava sulla “Via degli Abati” (o “Via Francigena di montagna”), si avvierà poi ad un progressivo decadimento, passando prima ai Benedettini e infine alla cura dei sacerdoti man mano incaricati dai Vescovi della Diocesi.
Poco distante, a presidio del Passo di San Abdon (attuale Santa Donna) sorgeva un castello, anch’esso definito di Gravago, del quale rimangono scarse tracce nei boschi, poco più che ruderi. Anche della casaforte Caminata di Bré e di una torre di vedetta in località Caminata non rimangono più tracce.
Abdon era un santo (di origine persiana e venerato dai Longobardi): fu uno dei tanti martiri del III secolo (accomunato a Sennen, anch’egli persiano), i cui resti mortali vengono ritrovati grazie ad una rivelazione e tumulati nel cimitero di San Ponziano, traslati poi nel XV secolo nella Basilica romana di San Marco. Nel cimitero romano di Ponziano è tuttora presente un affresco del VI secolo che raffigura i due martiri in abiti persiani con Cristo nell’atto di incoronarli. Nello stesso cimitero è stato trovato un vaso di terracotta con raffigurato un uomo prostrato in preghiera, in abiti persiani, che si ipotizza possa essere proprio Abdon.
Secondo la voce locale, Santa Donna non è altro che un involgarimento di “Abdon”, forse troppo difficile o lontano dalla cultura dell’Appennino parmense (una curiosità: appena sotto il valico si trova la borgata abbandonata di Pratofemmine…).
Risalgo la strada di montagna per andare a cercare la Pieve di Gravago (ieri sera Luigi Spagna mi ha raccontato che al di sotto del pavimento in terra battuta, durante i lavori di restauro, si sono ritrovati molti scheletri, attribuiti al tempo del Cholera ottocentesco che ha imperversato anche in Val Noveglia. La Pieve è citata in un documento del XIV secolo, con il titolo dell’Arciprete della Pieve di San Vito di Gravago. L’attuale chiesa (trovo le chiavi suonando alla casa più vicina) è semplice e modesta, spicca soltanto un altare seicentesco proveniente (chissà per quale motivo) dal Duomo di Carrara.
Termino il giro della borgate di Noveglia a Bré-Palazzo.
Al centro di alcune semplici abitazioni spicca un palazzo signorile di probabile origine seicentesca. La famiglia che ne detiene le chiavi è in casa, ed è disponibile a farmi vedere i locali. Il signor Gabriele Alessandrini, di origini bergamasche, mi spiega che durante la seconda guerra mondiale l’edificio è stato requisito dalla Wehrmacht a scopi militari; le cantine, hanno pavimenti in terra battuta e volte a botte.
Al termine del conflitto qui si è installata la scuola per tutta la Val Gravago. Le cinque stanze di oggi al primo piano corrispondono alle classi dell’epoca, mentre al piano terra abitava l’insegnante, in un locale in concessione gratuita.
Quando è stata chiusa la scuola (per essere accentrata a Bardi, a causa del primo spopolamento delle borgate) la Curia di Parma, che ne era proprietaria, intendeva trasformarla in casa di riposo. Il progetto non si è realizzato e l’immobile è stato ceduti ai privati che tuttora lo posseggono. Dopo l’acquisto, in una cantina, sono stati ritrovati reperti militari abbandonati dai tedeschi in fuga: una radio, un telefono e bobine per le registrazioni.
Nel cortile un architrave in pietra appoggiato al suolo porta la data del 1908, probabilmente a ricordo dell’innalzamento di un piano del palazzo.
Il mio pomeriggio bardigiano finisce alla biblioteca comunale di Bardi.
Cerco altre storie e altre leggende in Val Noveglia e nel Bardigiano.
Ci aggiriamo per la sala dove le librerie si allineano lungo le pareti. Prendo qualche volume in prestito, così avrò l’occasione di tornare entro fine anno (prolungando la durata dei prestiti) a Bardi e a Noveglia.
Troverò in questi volumi un’altra storia da scrivere?
Lascio Bardi, per tornare a Noveglia, con le copie della descrizione del viaggio di Antonio Boccia:
“Ripassato il Ceno dopo un miglio di non facil salita si entra in Bardi. Questo è abitato da 1250 anime.
Bardi ha un castello, che in senso mio è il più forte, ed il più conservato dello Stato.
I contorni di Bardi sono ameni, piacevoli e fertili, e non mancano industri possidenti che si adoperano anche con ispese straordinarie a renderli più floridi.
In Bardi vi sono due Conventi, uno dei Servi (di Maria, N.d.A.), nel quale non evvi che un religioso col laico, l’altro dei Zoccolanti con tre o quattro sacerdoti.
Il mercato di Bardi che si fa il giovedì d’ogni settimana, è uno dei più frequentati dello Stato, come pure le Fiere che vi si fanno infra…
La strada carreggiabile che dall’Emilia doveva continuare fino a Centocroci (Passo di Centocroci, N.d.A.), arriva fin qui. La sospensione di questa opera veramente romana ha impedito la felicità e la ricchezza di tutti que’ paesi, pe’ quali doveva essere fatta, ed il commercio generale dello Stato tuttora la deplora”.
Sono di nuovo al mio “buen retiro”, a Prati dei Campassi, dove Iginio Prati (davvero, omen nomen!) mi aspetta con una bottiglia di Gutturnio sul tavolo, perché io gli racconti il mio viaggio di oggi.
Dalle finestre della grande sala per la colazione l’Appennino è un orizzonte che va a perdersi verso l’infinito; due cavalli bardigiani (mamma e piccolo di pochi mesi) passeggiano sul prato e ogni tanto brucano, fieri e signorili nel loro portamento.
“Qui a Noveglia hai chiuso un cerchio, come quelli che a volte si chiudono nella vita” mi dice Iginio, mentre stappa la bottiglia.
Il sole digrada lentamente, la sua sottile linea rosseggiante questa sera sembra non volersi spegnere.
Quando termino la mia narrazione della giornata, apro il quaderno degli appunti e Iginio sa che è venuto il suo turno di raccontare. La sua vita e i suoi cambiamenti. Gliel’ho chiesto come un favore personale, da amico, per capire come la vita possa mutare forma e dimensione – basta volerlo – come ha fatto lui, per arrivare qui, alla fine del mondo, dove il mondo finisce perché non si va da nessuna parte, tutte le strade finiscono, e i boschi raccontano al cielo le leggende di questa terra magica…
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