Torino 1980: i picchetti e la marcia

Per ricordare il quarantesimo anniversario della cosiddetta “Marcia dei 40.000”, svoltasi a Torino il 14 ottobre 1980, abbiamo deciso di chiacchierare all’interno del grande e moderno polo espositivo FCA, il Mirafiori Motor Village, che si trova, mi dice il mio interlocutore, dove c’era la porta 10 dello stabilimento, quella delle sellerie, uno dei 32 grandi ingressi della fabbrica che videro 35 lunghi giorni di sciopero e di picchetti, sempre quello stesso anno.

In questo luogo spaziale, dominato dal marchio Jeep, si possono acquistare quasi tutte le auto del Gruppo, quasi tutte non prodotte più in questo che fu il più grande stabilimento europeo che, negli anni di gloria (o di ebbrezza?) arrivò ad occupare oltre 60.000 persone. Mi accompagna anche questa volta Flipot (per saperne di più su di lui si può vedere l’articolo Meno parlamentari, più qualità?, pubblicato su questo giornale il mese scorso), allora giovane sindacalista, che visse in prima persona (e in secondo piano) quegli eventi.

Ecco una sintesi della nostra conversazione: “Mi chiedi di parlare della marcia che cambiò il mondo del lavoro, la Fiat, il sindacato e il PCI? Prima, però, devi ricordarti in quale Italia allora vivevamo. Gli anni ’70 furono terribili e il 1980 non lo era da meno. Il terrorismo rosso non era ancora stato sconfitto. Lo stragismo neofascista imperversava, infatti la strage della stazione di Bologna era avvenuta il 2 agosto dello stesso anno. La mafia uccideva e non si trovavano i colpevoli. Eravamo immersi in un Mediterraneo dove gli altri si combattevano e noi contavamo nulla e pagavamo dazio: ancora oggi sai chi ha commesso la strage di Ustica? La politica, tranne Pertini, era impopolare e incapace: pensa che il governo Cossiga, impotente in quella fondamentale vertenza che era non solo sindacale, ma era epocale, cadde proprio durante lo sciopero, sostituito da un altro guidato, mi pare, da quel grande statista che era Forlani [segue smorfia ironica; n.b.: riferisco più o meno testualmente, e senza commenti, le opinioni del mio interlocutore].

In Italia si era alla frutta di una politica industriale che non era arrivata neanche all’antipasto. L’industria l’avevano munta tutti: industriali, lavoratori, sindacalisti, politici,… e non c’era più latte. Il sindacato non l’aveva capito, viveva sui fasti dell’autunno caldo del 1969, mentre il mondo era cambiato. La crisi petrolifera del 1973 l’aveva messa in ginocchio: in un giorno quadruplicato il prezzo del petrolio! Patì soprattutto quella dell’auto, anche perché, ogni due per tre, i vari governi aumentavano le tasse sulla benzina. Poi si affacciava la concorrenza giapponese. La Fiat, vittima anche del gigantismo vallettiano degli ultimi anni [Vittorio Valletta, principale collaboratore del fondatore dell’azienda, il senatore, di nomina regia a vita, Giovanni Agnelli; Valletta la guidò per molti decenni, passando infine il testimone al nipote di questi, l’avvocato Gianni Agnelli, a sua volta anche lui nominato senatore a vita (della Repubblica), mentre fu senatore eletto, per una sola legislatura, anche il fratello Umberto], soffriva forse di più di altri: troppo grande per l’Italia, piccola in Europa, inesistente nel mondo. Occorrevano nuovi modelli che consumassero meno (arriverà la Uno, ma questa storia la faremo un’altra volta), servivano investimenti, ma la Fiat non aveva soldi e le banche erano restie a darglieli (qui proprio un altro capitolo e bisognerebbe parlare di Cuccia, ma non c’è tempo); bisognava recuperare produttività, ma queste grandi fabbriche erano spesso ingovernabili, ricordati che l’omicidio del sindacalista Guido Rossa avvenne a Genova nel 1979: forse solo da quello il sindacato incominciò ad interrogarsi, ma non imparò in tempo per i fatti torinesi dell’anno dopo. La manodopera era troppa per le auto che si vendevano.

La Fiat (e col mio senno di poi, di oggi, direi anche il paese) aveva bisogno di nuove regole del gioco, ma a governo tacente e sindacato ostinato, giocò la carta pesante, pesantissima: per aggiustare la baracca sosteneva che bisognava licenziare oltre 23.000 persone. Drammatico! Furono proposti ‘ammortizzatori’ (negoziabili?), che non furono accettati e, su questa decisione, si giunse allo scontro: sciopero e picchetti ad oltranza. La Fiat ci avrebbe davvero licenziati così in tanti? O, forse, era solo il punto di partenza di una trattativa e si poteva discuterne? Ma, comunque, non si discusse fruttuosamente, anche perché noi sindacalisti torinesi eravamo troppo massimalisti. A Roma, i nostri non capirono nulla, i politici nazionali pensavano solo ai loro equilibrismi, mentre alla Fiat aveva avuto pieni poteri Romiti che, essendo esterno alla famiglia dei maggiori azionisti Agnelli, aveva le mani più libere per fare il gioco duro. Già, quest’anno è l’anno in cui non ci sono più né lui, che abilmente si defilò dalla responsabilità della marcia, ma non poteva non sapere, e neanche Luigi Arisio, il ‘quadro aziendale’ che ebbe l’onere di metterci in prima persona la faccia, anche se la testa fu Callieri, il capo del personale. Insomma, non accettavamo licenziamenti, quindi lotta dura: risultato fabbrica e città in ginocchio per 35 giorni!

Urlavamo davanti a queste porte: ‘Danzica, Danzica’, già perché pensavamo di essere Solidarnosc, ma di fronte non avevamo il feroce comunismo reale, ma un debole capitalismo e una fragile democrazia. Entrò in gioco il PCI e si suicidò. Perché uno intelligente come Berlinguer venne a dirci che sarebbe stato dalla nostra parte, se avessimo deciso di occupare la fabbrica, quasi fossimo nel ‘biennio rosso’ del 1919-21? Secondo me aveva un piano: simulare di stare totalmente e integralmente dalla nostra parte, per proporsi come indispensabile interlocutore nella trattativa industriale-politico-sindacale che inevitabilmente sarebbe seguita, avrebbe così recuperato lo spazio negoziale che aveva perso col fallimento del ‘compromesso storico’. Ma la realtà lo precedette e non riuscì a combinare nulla.

Non stiamo a discutere ancora chi fossero i 40.000 che scesero in strada per chiedere la fine di sciopero e picchetti, non chiediamoci neanche come si fossero organizzati così numerosi: in ultimo erano lavoratori come noi, che non ne potevano più! Noi non avevamo capito che il mondo del lavoro era cambiato! Risultato: sciopero e picchetti subito finiti, accordo fatto e cassa integrazione a zero ore per i 23.000, in seguito occupazione che verrà via via ridotta. Basta parei [basta così]. Persa quella battaglia, perdemmo poi la guerra, vedi come si ridusse il sindacato! Ci volle Ciampi per recuperagli un ruolo, pensa un po’! La Fiat vinse (forse al di là delle sue aspettative) e si rafforzò, ma col defilarsi degli Agnelli dalla direzione operativa per lasciarla a Romiti, l’azienda prese una piega meno industriale e più finanziaria, che pagammo tutti col tempo. Il PCI finì lì la sua storia, ben prima del 1989, di Occhetto, della Bolognina e del Muro di Berlino, rivelandosi già inutile in quel tipo di società così complessa. La politica perse quasi tutta, facendo poi vincere Craxi. Suma stait propi bin ciapà [espressione piemontese intraducibile il cui significato è da intendersi tristemente: ‘perdemmo proprio tutto’]”.

L’accalorata e parziale ‘filippica di Flipot’ non vuole e non può essere la puntuale e rigorosa ricostruzione storica degli eventi di quei giorni, ma è solo l’amaro ricordo di una persona che, in buona fede, partecipò, perdendo, ad eventi che, infine, cambiarono l’Italia (e Torino), forse ben oltre le intenzioni dei loro protagonisti e degli stessi vincitori, ma anche questa sarebbe un’altra storia,…

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