Elezioni USA, le certezze nell’incertezza
Dopo la giornata elettorale negli Stati Uniti, l’indeterminatezza regna sovrana e nessuno è in grado di dire chi abbia effettivamente vinto le elezioni. Un’incertezza paradossale per un Paese che millanta di essere “la più grande democrazia del mondo”, una definizione evidentemente a effetto, ma non molto realistica. Tuttavia, in questo clima di dubbio destinato a durare presumibilmente (almeno) qualche giorno, si possono individuare alcune certezze.
La prima è una questione squisitamente tecnica, che serve a relativizzare le cose in un’ottica mondialista, anziché centrata sul punto di vista occidentale. Il dato numerico ci dice che la più grande democrazia del mondo è l’India, con un miliardo e duecento milioni di abitanti, dei quali oltre 800 milioni hanno diritto al voto, praticamente come Europa e Stati Uniti messi insieme. Per inciso, sottolineiamo anche che la Camera di questo colosso demografico conta 545 membri, a confronto dei 630 di quella italiana ante riforma (ora 400), tanto per fugare i dubbi di coloro che paventano rischi di mancanza di rappresentatività. È vero che l’India è un Paese con una democrazia discutibile, dove pesano ancora gli strascichi della suddivisione in caste e uno scarso senso del diritto civile, tuttavia va sottolineato – caso unico al mondo per una nazione di quelle dimensioni – che ha conquistato l’indipendenza dal Regno Unito in modo assolutamente pacifico, grazie alla lotta non violenta di un gigante come Gandhi. Per contro, gli USA si sono affrancati dal dominio inglese con una guerra e hanno costruito la loro crescita economica prima sullo sterminio dei nativi, poi sulla schiavitù, fino alla Guerra di Secessione. Un “peccato originale” che per alcuni versi pesa ancora come un macigno sulla democrazia USA, come dimostrano le tensioni razziali che ancora di recente sono esplose nel Paese.
Una divisione riscontrabile anche nell’affluenza alle urne. Il dato delle elezioni attuali ci dice che ha votato circa il 67% degli aventi diritto, sommando sia i voti arrivati per corrispondenza, sia quelli in presenza, a loro volta derivanti dalla somma di quelli registrati nel giorno elettorale e quelli depositati in anticipo, come previsto dalla normativa. Per gli Stati Uniti si tratta di un’adesione altissima, ma rispetto per esempio alle medie italiane il dato è relativamente basso. Questo perché nella “più grande democrazia del mondo” l’astensione è in realtà piuttosto elevata, specialmente fra le minoranze etniche, in particolare quella afroamericana. Un dato di fatto che ha svariate cause e relative conseguenze. La discriminante principale è sicuramente quella socio-culturale: le classi più elevate hanno maggiore interesse a tutelare i propri diritti (o privilegi) e sono maggiormente consapevoli dell’importanza del loro voto e della possibilità che faccia la differenza. Ma ci sono anche problemi oggettivi: una dozzina di stati tolgono il diritto di voto agli ex detenuti, fattore che penalizza ovviamente le classi più disagiate e le etnie afroamericana e ispanica. Inoltre, occorre rimarcare che negli USA si vota di martedì, giorno lavorativo, consuetudine nata in una società profondamente diversa da quella attuale. Oggi per molti lavoratori di fascia bassa è un grosso sacrificio prendere un permesso per recarsi ai seggi, spesso a fare lunghe code, fattore che ancora una volta penalizza i meno abbienti, non di rado appartenenti alle minoranze etniche.
Ecco perché in un Paese per molti versi aperto e pluralista, il potere è comunque quasi totalmente concentrato nelle mani di una ristretta élite bianca, i cosiddetti Wasp, White Anglo-Saxon Protestant, di cui fanno parte quasi tutti i presidenti USA, eccettuati il cattolico Kennedy e l’afroamericano Obama.
Un’altra caratteristica che non viene sottolineata con la dovuta attenzione e che il presidente degli Stati Uniti non viene scelto “dal popolo”, bensì dai cosiddetti Grandi Elettori, ovvero i delegati dei singoli Stati, che vengono assegnati principalmente col meccanismo winner take all, il vincitore prende tutto, con una formula ultra maggioritaria che dovrebbe far riflettere anche dalle nostre parti. In pratica, significa che basta prevalere di un solo voto in un determinato Stato per accaparrarsi tutti i delegati previsti, senza alcun correttivo proporzionale. Questo meccanismo può portare al paradosso di eleggere come presidente il candidato che ha preso meno voti, come capitato già quattro volte, le ultime nel 2000 con George W. Bush che ha “scippato” la presidenza al più votato Al Gore e con lo stesso Donald Trump, che nel 2016 è diventato presidente pur ottenendo circa tre milioni di voti in meno rispetto a Hillary Clinton. Eventi non frequenti, ma che sollevano seri dubbi su questo sistema elettorale fortemente maggioritario, che pone il rischio di non rispettare la volontà popolare e non garantisce nemmeno di poter indicare un vincitore nel giorno stesso delle elezioni.
Nel caso attuale, entrambi i contendenti hanno già annunciato ricorsi e battaglie legali per disputarsi i voti espressi per via postale, in gran parte ancora da scrutinare e che potrebbero ribaltare gli esiti di alcuni Stati, spostando i relativi Grandi Elettori dall’uno all’altro dei due contendenti. Un risultato al fotofinish che ritrae una nazione profondamente divisa, colorata del blu dei Democratici sulle due coste Est e Ovest e col profondo rosso dei Repubblicani a dominare la pancia del Paese. Il tutto condito da un probabile contenzioso politico e legale per strapparsi gli ultimi voti popolari e aggiudicarsi abbastanza Grandi Elettori (ne occorrono almeno 270 su un totale di 538) per diventare presidente.
Dunque un’elezione che potrebbe venire decisa a colpi di controlli incrociati, giudici, avvocati e carte bollate. Alla faccia della “più grande democrazia del mondo”.
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