Kamala Harris, vicepresidente

La tornata elettorale per le presidenziali americane appena conclusa è caratterizzata da numerosi record: Joe Biden, nominato 46° presidente degli Stati Uniti, è il più anziano candidato ad aver conquistato la Casa Bianca, ma anche quello più votato di sempre, con oltre 74 milioni di schede a suo favore. Un primato che il neo presidente condivide naturalmente con il suo vice, dal momento che i cittadini americani in realtà votano un ticket che comprende entrambi i candidati alle due massime cariche dello Stato.

Ed è proprio qui che troviamo il dato più rilevante, perché per la prima volta il ruolo di vicepresidente eletto è appannaggio di una donna, Kamala Harris, senatrice della California con un curriculum eccezionale, che le ha consentito di infrangere il più alto dei “soffitti di vetro”, quei limiti invisibili, ma tangibili, che troppo spesso impediscono alle rappresentanti del sesso femminile di accedere alle posizioni apicali.

Se questo non bastasse, Kamala Harris è anche figlia di immigrati, con madre indo-americana immigrata da Chennai (Tamil Nadu, India) e padre proveniente dalla Giamaica, origini che le regalano una carnagione ambrata e un’etnia mista asio-afro-caraibica e che la portano ad autodefinirsi semplicemente “americana” e ad affermare la veridicità del detto che vuole gli Stati Uniti come “terra delle opportunità”.

A differenza di Biden, che giunge alla presidenza dopo una lunghissima carriera politica, la Harris proviene dall’ambito della magistratura e questa sua caratteristica, unita a una tendenza che qualcuno da noi definirebbe “giustizialista” e a una collocazione centrista all’interno del partito Democratico hanno fatto sì che qualche esponente dell’ala più a sinistra l’abbia soprannominata “la poliziotta”, non esattamente un apprezzamento.

Tuttavia la realtà è un po’ più sfaccettata e, se è vero che la Harris ha dimostrato in più occasioni di agire con il pugno di ferro e di non fermarsi davanti a nessuno, è altrettanto vero che ha dedicato grande attenzione ai diritti civili e alla tutela delle minoranze e dei soggetti svantaggiati, conseguendo anche diversi successi. Evidenziare la sua lunga carriera e le sue numerose inchieste da Procuratrice sarebbe troppo lungo, ma vale la pena soffermarsi su qualche punto, per capire chi sia la prima donna a entrare alla Casa Bianca con un ruolo esecutivo, destinata ad avere sicuramente un peso notevole e crescente.

Nata a Oakland, California, nel 1964, Kamala Devi Harris per volontà della madre, che voleva conservare le radici indiane, riceve due nomi di origine religiosa: “Kamala”, ovvero “loto” in sanscrito, è uno degli appellativi della dea Lakshmi, “Devi” è la dea femminile che protegge i villaggi, circostanza che porta ad auspicare omen nomen, il destino nel nome, visto che in qualità di seconda carica più alta del Paese più potente del mondo dovrà agire per difendere il villaggio globale dell’umanità. Crescendo frequenta sia una chiesa battista per neri, sia un tempio induista, una duplice appartenenza etnico-religiosa che probabilmente accresce il suo multiculturalismo e la sua tolleranza verso le diversità.

Dopo una parentesi in Canada a seguito della madre trasferita per lavoro, tornando negli USA consegue due specializzazioni in scienze politiche ed economia presso la Howard University di Washitington D.C., dove fornisce prova delle sue qualità dialettiche e viene posta alla guida della squadra del dibattito, successivamente consegue la laurea in Legge all’Università della California di San Francisco e intraprende la carriera in ambito legale.

Diventa prima vice procuratrice distrettuale della Contea di Alameda, poi assistente procuratore distrettuale a San Francisco. A seguito di contrasti con i suoi superiori, lascia la procura per lavorare alle dipendenze del city attorney del Municipio di San Francisco, occupandosi di casi di maltrattamento di minori e ricevendo notevole apprezzamento.

A seguire, decide di candidarsi come procuratrice distrettuale di San Francisco, sfidando il suo ex capo (Biden è avvisato…) e battendolo al ballottaggio, diventando così la prima procuratrice distrettuale di colore in California. Sotto la sua guida competente e inflessibile la procura aumenta di parecchio la sua efficienza, ottenendo un aumento delle condanne per reati gravi dal 50 al 76%. Un successo che la porterà a una riconferma senza contendenti. È in questo periodo che decide di istituire un’unità dedicata ai reati ambientali, ma soprattutto è qui che decide di usare il pugno duro contro i reati gravi commessi con armi da fuoco, perseguendo anche il possesso di armi d’assalto o detenute illegalmente. Misure inusuali negli USA, dove il possesso di armi da fuoco è considerato da molti un diritto inalienabile del cittadino, ma giustificate dall’elevato tasso di criminalità che contraddistingueva San Francisco in quegli anni.

Parallelamente, istituisce una Hate Crimes Unit contro i crimini di odio e intraprende iniziative contro la dispersione scolastica.  Soprattutto, crea la San Francisco Reentry Division, per fornire un percorso di ravvedimento e reinserimento agli autori di reati lievi, non commessi con armi e non legati alla criminalità organizzata. Un programma di successo, che abbatte il tasso di recidiva dal 50 al 10% e si rivela anche meno costoso dell’iter giudiziale, tanto che il Dipartimento di Giustizia lo indica come modello da seguire anche in altre contee.

Sulla scia di questi successi, la Harris si candida come Procuratrice generale della California e arriva al ballottaggio col candidato repubblicano il 2 novembre 2010, ma già allora lo spoglio dei voti postali si protrae oltre la giornata elettorale e il suo avversario riconosce la sconfitta solo il 25 novembre. La stessa cosa che oggi si sta ripetendo per la presidenza, il che conferma l’esistenza di zone d’ombra nel sistema elettorale statunitense.

La poltrona di Procuratrice generale è però solo un trampolino di lancio per l’elezione al Senato. Nel 2016 si candida e vince le primarie della California, ottenendo l’approvazione dell’allora presidente Barack Obama e del suo vice, che era lo stesso Biden. Conquista il seggio parlamentare nelle stesse elezioni con le quali Donald Trump diventa presidente e immediatamente si impegna a difendere i diritti degli immigrati, da sempre nel mirino del nuovo inquilino della Casa Bianca. La Harris è anche fra coloro che votano a favore della procedura di impeachment, per incriminare il presidente Trump per abuso di potere e ostacolo al Congresso.

Infine, nel 2020 si presenta alle primarie del partito Democratico per la scelta del candidato destinato a sfidare Trump, ottenendo inizialmente un notevole successo in termini di consensi e raccolta fondi. Durante i dibattiti fra i contendenti, la Harris è forse la più dura nei confronti di Joe Biden, ma col proseguire della campagna il navigato ex vicepresidente, tenace e resiliente, riesce a recuperare terreno nel gradimento degli elettori, mentre la Harris subisce un tale declino da convincerla a ritirarsi dalla corsa.

Poco per volta, Biden riesce a imporsi sugli altri sfidanti e diventa il candidato ufficiale dei Dem. A quel punto, deve scegliere un vice che lo affianchi nella corsa alla Casa Bianca. E, da uomo saggio quale ha dimostrato di essere in questi lunghi anni di attività politica, sceglie proprio lei, Kamala Harris, quella che nel corso delle primarie lo aveva attaccato di più, dimostrando coraggio e apertura mentale, oltre naturalmente a una notevole dose di calcolo politico, per propiziarsi il voto dell’elettorato femminile e delle minoranze.

Il resto è storia di oggi, con il vecchio sleepy Joe (Joe l’addormentato, come lo definiva sprezzantemente Donald Trump) che conquista la Casa Bianca e corona la sua lunga carriera politica con la poltrona più alta, portando con sé la prima donna vicepresidente degli Stati Uniti.

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