Quarant’anni fa il terremoto dell’Irpinia

Durante l’Angelus domenicale, papa Francesco ha voluto ricordare il quarantesimo anniversario del terremoto dell’Irpinia, avvenuto il 23 novembre 1980, alle 19.34 di una domenica sera destinata a rimanere impressa nella nostra memoria collettiva. Con la consueta chiarezza e lucidità, papa Francesco ha posto l’accento sui due aspetti contrapposti di quella tragedia: da un lato, i ritardi e le inefficienze dei soccorsi, dall’altro la straordinaria gara di solidarietà che si innescò in quei giorni per andare in aiuto delle popolazioni colpite.

A incidere su questi due aspetti, all’epoca, fu un gigante della politica italiana, l’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini, tuttora il più amato fra i nostri Capi di Stato. Due giorni dopo la scossa, il 25 novembre, senza ascoltare i pareri contrari del presidente del Consiglio Forlani e di altri ministri, Pertini volò sui luoghi del sisma, per rendersi conto di persona della situazione. Tornato a Roma, si rivolse alla nazione con un messaggio televisivo nel quale denunciava i ritardi nei soccorsi, provocando uno scossone nelle paludate gerarchie statali e periferiche, ma anche negli animi della cittadinanza. Furono in molti, spronati dalle parole del Capo dello Stato, a decidere di partire volontari per dare una mano nei soccorsi immediati e nell’assistenza agli sfollati.

Quello che i soccorritori si trovarono davanti fu un disastro con pochi eguali. La scossa, durata 90 lunghissimi, interminabili secondi, raggiunse i 6.9 gradi di magnitudo sulla scala Richter, corrispondenti al decimo grado della Scala Mercalli, interessando un vasto territorio a cavallo fra Campania, Basilicata e Puglia, con epicentro in Irpinia. Le tre province più colpite furono quelle di Avellino (103 comuni), Salerno (66) e Potenza (45). Proprio in quest’ultima provincia si trova Balvano, uno dei paesi che, suo malgrado, divenne fra i simboli della tragedia: qui infatti il crollo della chiesa di di S. Maria Assunta provocò la morte di 77 persone, fra cui 66 bambini e ragazzi, mentre si trovavano a messa. Ma la violenza del sisma provocò drammi anche in zone molto più distanti, causando il crollo di edifici già fatiscenti, come quello di via Stadera, nel quartiere di Poggioreale a Napoli, dove trovarono la morte 52 persone.

Paradossalmente, furono proprio i danni periferici a essere identificati per primi, perché il “cratere” del sisma, il territorio più vicino all’epicentro, rimase isolato a causa della messa fuori uso delle comunicazioni e delle vie di collegamento, fattore che condizionò in maniera determinante i già citati ritardi nelle operazioni di soccorso.

Il bilancio finale, peraltro approssimativo, parla di quasi 3.000 deceduti, poco meno di 9.000 feriti e circa 280.000 sfollati, oltre che di danni incalcolabili a edifici e infrastrutture. A tutt’oggi, si tratta dell’evento sismico più violento registrato in Italia dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Non è esagerato dire che un’intera nazione partecipò con straordinaria empatia ad aiutare i connazionali colpiti da questo dramma collettivo. Sfogliando le pagine dei giornali dell’epoca, balza agli occhi proprio lo stridente contrasto fra le denunce e le polemiche sui soccorsi, e la generosità dei cittadini, che si ripeteva uguale, se non superiore, rispetto a quanto avvenuto soltanto quattro anni prima in occasione del terremoto del Friuli.

In particolare, a Torino La Stampa pubblicò per giorni e giorni pagine intere di elenchi di donazioni da parte dei lettori, mentre la stessa amministrazione cittadina decise di adottare una parte dei territori colpiti, in particolare il paese di Lioni, nella provincia di Avellino, dichiarando “Torino ha un quartiere in più”, una sorta di gemellaggio Nord-Sud unico nel suo genere.

Non bisogna dimenticare, peraltro, che all’epoca Torino era ancora una città connotata da una forte componente migratoria, dovuta all’immigrazione degli anni precedenti, in massima parte proprio dal meridione, di persone che cercavano lavoro nelle numerose realtà produttive allora presenti nel capoluogo subalpino (oggi desolatamente deindustrializzato). Moltissimi erano dunque coloro che sentivano ancora forte il legame con i luoghi d’origine e con i “fratelli” del Sud, ma molti anche gli autoctoni torinesi che, dopo la diffidenza iniziale, negli anni avevano imparato ad accettare, integrare e apprezzare quella gente arrivata dal meridione con il suo carico di umanità, dunque sentivano l’impulso emotivo e il dovere morale di aiutare le popolazioni in difficoltà, se non di persona almeno economicamente.

L’aiuto dei volontari arrivati in loco fu determinante per coadiuvare i primi soccorsi, mentre la solidarietà degli italiani portò a raccogliere cifre considerevoli, che si sommarono agli ingenti aiuti statali. La cospicua cifra di finanziamenti disponibili diede luogo, in seguito, a una vergognosa speculazione volta ad accaparrarsi una fetta di quelle risorse, reclamate anche da chi non ne avrebbe avuto diritto, in un truce connubio di amministrazioni corrotte, malaffare e infiltrazioni mafiose. Una pagina oscura che pesa tuttora nella memoria della tragedia, ma che non deve sporcare in alcun modo la generosità dei tanti italiani che invece cercarono sinceramente di dare una mano.

A quarant’anni di distanza, rimane indelebile la memoria di quel dramma e numerose sono le doverose iniziative di commemorazione. Ma il miglior modo di onorare le vittime di questa e delle altre numerose catastrofi che hanno funestato e tuttora colpiscono il nostro Paese, sarebbe di trarre insegnamento da queste tragedie per mettere in atto efficaci strategie di prevenzione per evitare che si ripetano. Una lezione che ancora oggi non sembriamo in grado di assimilare, come dimostrano le inefficienze registrate in occasione della seconda, prevedibilissima ondata di pandemia.

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