Il futuro delle montagne
La Natura non ha bisogno di noi. Siamo noi che abbiamo bisogno della natura.
Bisogna partire da questa consapevolezza per ridisegnare il nostro rapporto con il territorio, in particolare con quelle zone sensibili che sono maggiormente a rischio a causa dei mutamenti climatici, ma che se ben gestite possono essere fonte di risorse cruciali per il nostro futuro benessere.
Parliamo in particolare delle montagne, che rappresentano oltre un terzo della superficie complessiva del Paese, nonché la porzione tuttora più intatta del territorio, con un numero relativamente contenuto di infrastrutture e una presenza antropica esigua e tuttora in diminuzione.
Per frenare lo spopolamento della montagna e aumentarne la fruibilità sia per i residenti, sia per i frequentatori occasionali, senza tuttavia comprometterne la naturalità, occorre programmare con attenzione ed equilibrio sviluppo e conservazione, tenendo conto degli effetti che i cambiamenti climatici stanno già apportando nei delicati meccanismi ecosistemici delle Terre Alte, i cui effetti sono già visibili e che diventeranno ancor più rilevanti nel prossimo futuro.
Per fornire migliori servizi e opportunità a residenti e visitatori, garantendo al contempo sostenibilità ambientale, economica e sociale al futuro di questi luoghi, si sta già lavorando su molteplici direttrici.
Soggiorni stanziali e turismo sostenibile
La pandemia tuttora in corso ha cambiato profondamente abitudini e stili di vita, molto spesso in peggio, ma con qualche novità potenzialmente positiva. Fra queste, l’aumento esponenziale del telelavoro, che gli italiani si ostinano a chiamare smart working, perché le cose dette in inglese sembrano più accattivanti, o fashion, come direbbero gli anglofili. A prescindere dalle disquisizioni linguistiche (ma del resto anche lingue e dialetti sono parte fondante della cultura montana e non solo) la possibilità di operare “in remoto” consente di lavorare appunto anche da zone remote, come le località di montagna. A condizione di avere le infrastrutture adeguate per i collegamenti, che evidentemente non saranno più nastri di asfalto, gallerie e viadotti in cemento armato, ma eterei collegamenti a banda larga, in grado di connetterci in pochi secondi col mondo intero. Ne consegue che molti “cittadini” potrebbero decidere di lavorare nelle località di montagna, stabilendovisi per periodi più o meno prolungati, una via di mezzo fra residenti e turisti.
Dall’altro lato, la stessa pandemia ci ha fatto capire la pericolosità degli “assembramenti”, tipici del turismo di massa che sta nuovamente rivolgendo la propria attenzione alle montagne. Da qui la necessità di gestire flussi crescenti di persone in sicurezza, a partire dalla pratica degli sport invernali, peraltro destinati a un progressivo ridimensionamento a causa dei cambiamenti climatici in atto, con l’innalzamento delle temperature che renderà sempre più problematico l’innevamento delle stazioni sciistiche.
Situazioni oggettive che indirizzano verso una fruizione della montagna più vicina alle origini del turismo alpino e più in sintonia con lo spirito dei luoghi, a cominciare dall’escursionismo, attività tendenzialmente in crescita e che resta il modo migliore per apprezzare percorsi e panorami e, perché no, le delizie enogastronomiche del territorio, fondamentali per rifocillarsi dopo una bella camminata. A fianco di questo sta conoscendo una crescita esponenziale il cicloturismo, ultimamente agevolato dall’invasione delle bici a pedalata assistita che, grazie a un propulsore elettrico, rendono decisamente più agevole cimentarsi con le salite, tanto da far ritenere che a breve sarà necessario regolare in qualche modo anche questa attività.
Riveste una certa importanza anche il turismo diretto verso le aree protette o le zone alpine di interesse storico, artistico e culturale, tutti canali che contribuiscono a incrementare presenze e richiesta di servizi relativi all’accoglienza, con un inevitabile impatto su territori che devono comunque riuscire a mantenere inalterata la propria valenza naturalistica ed ecosistemica, in grado cioè di garantire quei servizi –raccolta e filtraggio delle acque piovane, cattura di anidride carbonica ecc. – che solo la Natura è in grado di fornire a costo zero e con elevatissima efficienza.
In poche parole, è essenziale salvaguardare territorio ed ecosistemi, in modo da garantire un ambiente salubre e rigenerante per tutti, residenti e fruitori occasionali
Le cooperative di comunità.
Si tratta di una formula associativa a forte valenza sociale, nella quale cittadini, aziende, associazioni e istituzioni creano una sinergia attraverso la quale scambiare e fruire beni e servizi prodotti da ciascun attore della comunità. Un modello che facilita la coesione e la mutualità fra persone, particolarmente adatto a contesti di piccole dimensioni e ubicati in aree marginali come sono appunto i borghi montani, dove tutti concorrono al benessere e alla tenuta socioeconomica della comunità. Una ricerca del 2019 ha censito 109 strutture comunitarie di questo tipo, con una diffusione non omogenea a causa di normative regionali diverse, fattore che denota la necessità di una legislazione su base nazionale che definisca le caratteristiche peculiari di queste cooperative, indicando con precisione finalità, ambiti di riferimento e modalità operative, in maniera sufficientemente flessibile da ricomprendere le molteplici e diversificate attività in gioco, a partire dalla produzione agroalimentare per passare al commercio, al trasporto locale, alla gestione dei beni pubblici e del patrimonio naturale.
La questione delle foreste meriterebbe una trattazione a parte, visto nel 2019 il “Rapporto sullo stato delle foreste e del settore forestale in Italia” pubblicato dal ministero per le Politiche agricole alimentari, forestali e del turismo le quantifica in nove milioni di ettari, ai quali vanno sommati quasi due milioni di ettari di altre aree boschive, per una estensione complessiva pari a circa un terzo della intera superficie nazionale. Una risorsa enorme, che per due terzi risulta di proprietà privata e solo per il restante terzo pubblica, con modalità di gestione che variano a seconda delle regioni.
L’Accordo di Foresta vuole essere uno strumento legislativo che preveda forme associative per la conservazione, tutela e valorizzazione di questo patrimonio naturale da parte delle comunità locali, con l’obiettivo di garantirne una gestione sostenibile, attraverso una filiera produttiva che generi occupazione tutelando al contempo la risorsa boschiva in modo da consentire la sua rigenerazione.
Un modo per mantenere in equilibrio le esigenze economiche e quelle di conservazione, per garantire alle comunità la possibilità di fruire delle risorse forestali anche nel lungo periodo. Senza contare che una filiera del legno su base locale, ma replicata a livello nazionale, consentirebbe di ridurre la dipendenza dalle importazioni di legname e prodotti derivati, come la polpa di cellulosa, troppo spesso provenienti dal disboscamento illegale delle foreste primarie, con grave danno per l’ecosistema globale. .
In conclusione, per dirla in breve, occorre ritornare a coltivare la montagna nel senso più ampio del termine, trasformando questo ambiente in un equilibrato insieme di natura e di lavoro dell’uomo, dove il territorio non sia abbandonato al degrado, ma neppure stravolto da ruspe, infrastrutture sovradimensionate e invasioni di orde fameliche in fuga dalle insostenibili calure delle terre basse flagellate dal riscaldamento globale. Al contrario, l’opera delle genti di montagna deve essere come un fine cesello che modella il territorio, rendendolo fecondo e in grado di sostenere la presenza umana senza perdere le sue peculiari caratteristiche ambientali, paesaggistiche e di biodiversità.
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