Dalle mascherine monouso all’economia circolare

L’emergenza sanitaria conseguente all’epidemia Covid-19 ha sconvolto le nostre vite sotto ogni aspetto. Nulla è rimasto come prima a causa del pericolo della trasmissione del contagio. E quasi tutto è cambiato in peggio. Per questo in molti auspicano di tornare al più presto a “come prima”. Ma è necessario che ci ficchiamo in testa una volta per tutte e alla svelta che tornare a “come prima” non sarà possibile e, a ben vedere, nemmeno auspicabile. Perché già prima le cose non andavano granché bene e se cerchiamo di rifare le cose “come prima” non potremo che peggiorare la situazione. Al contrario, sarebbe bene sfruttare questo momento di strappo per ricucire le nostre società su basi diverse, cosa che in parte e per alcuni aspetti abbiamo già iniziato a fare. Ora occorre proseguire su questa strada, abbandonando modelli precedenti che sono ormai obsoleti e che comunque si erano già dimostrati fallimentari.

Per esemplificare il concetto, prendiamo un esempio che è drammaticamente sotto gli occhi di tutti: quello delle “mascherine” monouso, strumento divenuto indispensabile per proteggere noi stessi e gli altri dalla diffusione del virus, un oggetto entrato prepotentemente nella quotidianità di ognuno di noi.

All’inizio dell’epidemia, le mascherine erano diventate praticamente introvabili, le poche disponibili venivano vendute a prezzi esorbitanti. Questo soprattutto perché in Italia non venivano prodotte, per cui per il loro approvvigionamento dipendevamo totalmente dalle importazioni dall’estero, in particolare dai paesi asiatici, Cina in testa. Come molte produzioni considerate “a basso valore aggiunto”, anche quella delle mascherine era stata delocalizzata all’estero, verso quelle economie dove il costo del lavoro è più basso, il che consente di contenere il prezzo finale del prodotto e renderlo “competitivo”, nonostante il ricarico dei costi di trasporto per migliaia di chilometri. È il sistema della globalizzazione neoliberista, basato appunto sulla delocalizzazione delle produzioni verso i paesi con basso costo della manodopera, scarse tutele sindacali, magari anche pochi diritti civili e totale indifferenza verso le norme igienico sanitarie e la tutela ambientale. Al tempo stesso, il modello globalista prevede un caotico turbinio di merci che viaggiano per migliaia di chilometri da e per ogni angolo del mondo, per la quasi totalità trasportate con l’utilizzo di combustibili fossili, quindi con l’emissione di sostanze nocive e gas serra che a loro volta hanno seri impatti sull’ecosistema e sul riscaldamento globale.

Ma di tutto questo al consumatore medio finale non interessa nulla, l’importante è che, al momento dell’acquisto, il prodotto deve “costare poco”. Soltanto che, troppo spesso, confondiamo il “prezzo”  basso con il “costo” reale. Un costo che paghiamo prima di tutto in termini ambientali, come si è detto, ma in genere di questo importa poco al consumatore, attento soprattutto al portafoglio piuttosto che all’inquinamento. Ma ci sono anche altri costi che ricadono sulla pelle di tutti, quelli sociali ed economici. La delocalizzazione selvaggia degli ultimi decenni ha contribuito in misura determinante a creare disoccupazione, desertificazione industriale, perdita di redditività diffusa, aumento della spesa pubblica per misure di sostegno e altro ancora. Quello che risparmiamo all’acquisto lo paghiamo con un peggioramento generalizzato delle nostre condizioni di vita.

Non solo. La dipendenza dai prodotti di importazione crea anche una debolezza strategica, che però in genere non viene percepita. Ma l’improvvisa necessità di quantità industriali di mascherine ha reso drammaticamente evidente a tutti questo vulnus, la fragilità intrinseca di un’economia che dipende in larga parte o totalmente dalle importazioni dall’estero. I paesi produttori di mascherine se le tenevano per soddisfare il loro stesso fabbisogno, mentre noi restavamo senza, esposti al virus.

E la paura del contagio, per lunghe settimane, ha messo a rischio l’intero sistema dei commerci globali, perché si temeva che il virus potesse viaggiare e diffondersi insieme alle merci, prima di capire che in realtà lo faceva esclusivamente o quasi tramite le persone. Le quali tuttavia a loro volta viaggiano tantissimo, sempre in ossequio al modello globalista, che impone trasferte di lavoro transcontinentali. È a causa di questo interscambio continuo se un virus sbucato in una remota provincia cinese, nel giro di poche settimane si è diffuso su tutto il pianeta, prima che ci decidessimo a frenare gli spostamenti.

Tuttavia, sembra che in parte abbiamo capito la lezione. Nel giro di poco tempo, molte aziende nostrane hanno riconvertito le loro filiere per produrre mascherine e, quando si è scoperto che in Gran Bretagna circolava una variante più insidiosa del virus, i collegamenti sono stati immediatamente sospesi a livello cautelativo, nonostante questo abbia creato un enorme caos alle frontiere, con migliaia di camion bloccati e autisti giustamente esasperati. Già, perché la globalizzazione la fa ancora da padrona e le merci continuano a circolare furiosamente, ma forse questa crisi può servire a cambiare le cose.

Per esempio, quanti sarebbero disposti, in presenza di un calo dell’epidemia, a delocalizzare nuovamente all’estero la produzione di mascherine? Per avere un “costo”, o meglio un prezzo più basso di pochi centesimi, saremmo di nuovo disponibili ad accettare il rischio di rimanere senza dispositivi di protezione? Forse no, ora che sappiamo quali sono i costi reali, in termini di aumento delle spese sanitarie e, soprattutto, di perdite di vite umane.

Ma senza arrivare al caso limite di un’epidemia, saremmo disposti a rinunciare alla nostra sovranità alimentare, costruendo un modello che ci renda dipendenti dall’estero per l’approvvigionamento del nostro cibo? No? Bhè, però lo stiamo facendo. A causa della cementificazione costante del territorio, abbiamo perso centinaia di chilometri quadrati di terre fertili. Abbiamo seppellito i nostri campi coltivati sotto il cemento di centri commerciali dove si vendono prodotti coltivati da altri, provenienti da migliaia di chilometri di distanza. E così facendo, siamo passati in pochi anni da una produzione nazionale in grado di soddisfare oltre il 90% del fabbisogno alimentare del Paese a poco più dell’80%. Una tendenza che continua, anche perché, in testa alle “ricette” per far ripartire il Paese, c’è l’immancabile e sempreverde parolina magica, “infrastrutture”. La nostra classe dirigente e buona parte dell’opinione pubblica continuano a pensare che, per far ripartire l’economia, l’unico modo sia buttare altro cemento, altro asfalto, per implementare gli scambi. Ancora oggi, quando ormai dovremmo aver capito i danni, i rischi e le fragilità di questo sistema basato sulla globalizzazione, qualcuno continua a predicare il verbo del commercio globale.

Eppure per molti aspetti abbiamo riscoperto i vantaggi delle filiere locali. Non solo l’utilità di produrre le mascherine a casa nostra, senza dipendere da paesi stranieri per proteggerci dal virus, ma più in generale la rete del commercio di prossimità, delle produzione a chilometro zero, di una comunità coesa e legata al territorio. Non perdiamo questa nuova consapevolezza, questa preziosa opportunità per consegnarci di nuovo nelle mani del modello neoliberista della globalizzazione, che così tanti danni ha creato. Non cediamo alle brame di “cementari” e “sviluppisti” che vorrebbero asfaltare ovunque, o che vaneggiano di linee ad alta velocità per trasportare merci provenienti da chissà dove, piuttosto ricominciamo a produrre qui, che è poi il vero modo per aumentare l’occupazione, specialmente se lo si fa seguendo i principi dell’economia circolare.

Anche in questo caso, è utile rifarsi all’esempio delle mascherine. La necessità di utilizzarle in maniera generalizzata e in modalità monouso, oltre alle esigenze produttive mette in luce le problematiche relative allo smaltimento. Parliamo di 90 milioni di pezzi al mese che devono essere cestinati. L’ Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) valuta che ciò equivalga a una quantità di rifiuti pari a oltre 700 tonnellate al giorno su scala nazionale. Se non vogliamo esse sommersi da una montagna di mascherine usate, dovremo imparare non solo a produrle, ma anche a riciclarle, secondo i principi dell’economia circolare, che portano il rifiuto a diventare nuovamente materia prima. Un approccio in grado di ridurre la quantità di rifiuti e di creare nuove opportunità di lavoro, ma che necessita della creazione di una filiera che vada dalla progettazione di un prodotto interamente riciclabile alla collaborazione con chi si occupa della raccolta rifiuti, passando per l’impegno responsabile dei cittadini che dovranno differenziare e conferire correttamente il materiale da riciclare.

L’ENEA (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico) ha già messo in campo un progetto in tal senso, che prevede l’utilizzo di mascherine sanabili e riutilizzabili sulle quali inserire filtri monouso di un solo materiale, i quali una volta utilizzati andranno poi raccolti in punti comodi (farmacie, supermercati) per essere riciclati e rimessi nel circolo produttivo. Esiste già un’esperienza pilota in tal senso a Bergamo e Brescia, ma è chiaro che un modello di questo tipo va esteso a tutto il territorio nazionale e replicato per ogni tipo di produzione, dagli scarti organici della filiera alimentare ai residui delle lavorazioni industriali.

È in questo tipo di approccio, basato su produzioni locali a filiera circolare, che deve basarsi una ripresa sostenibile e duratura, piuttosto che inseguire malsane idee di tornare a una economia “come prima”, con tutti i danni che comportava. Solo se sapremo cambiare paradigma potremo uscire da questo cataclisma meglio di come ne siamo entrati e molto meglio di come stiamo ora.

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