Effetto Draghi

Aldilà del suo significato strettamente politico il conferimento dell’incarico al prof.Mario Draghi di formare un nuovo governo sta rivelando molti dei limiti del dibattito pubblico e dei soggetti individuali e collettivi che lo animano. Tragicomico è sembrato l’iniziale balletto delle forze politiche, come se toccasse a loro dare le carte anziché riconoscere questo nuovo complessivo fallimento della politica. Nella logica del teatrino della politica nazionale avrebbe dovuto essere considerato Matteo Renzi il grande vincitore e Zingaretti e Conte gli sconfitti. Ma l’ex presidente della Bce non sembra affatto poter essere assimilato da tale sistema così come lo sono stati Grillo e Salvini, solo per citare gli esempi più recenti. La scelta di Draghi deborda ampiamente dai limiti angusti e provinciali della politica nostrana. Essa risponde piuttosto a una logica su scala europea e internazionale, nella quale l’Italia in questa fase è un Paese chiave da cui passa la ricerca di nuovi e più stabili equilibri geopolitici e il futuro dell’Unione Europea. C’è da esserne certi che il presidente incaricato, la cui statura è ovunque riconosciuta essere di livello mondiale, a quella logica risponderà e alla scala di priorità che essa implica.

Questo è l’elemento che sta mandando in crisi un sistema politico che negli anni è andato strutturandosi più sull’agenda indicata dal circo mediatico che sulla sostanza delle cose, in un gioco di specchi nel quale a non venire raffigurati molto stesso hanno finito per essere i fatti, troppo rudi, troppo poco rispettosi dei canoni richiesti per occupare il discorso pubblico. Così si spiega l’affannosa ricerca di motivazioni del pur bravo segretario Nicola Zingaretti per giustificare la partecipazione del Pd al governo Draghi: una collezione di “-ismi”, pro (come europe-ismo) e contro (come sovran-ismo) non essendo forse quel partito unito su una strategia di fondo per il Paese in questo difficile momento. Così, chi più chi meno, gli altri partiti. Per arrivare a Salvini, quello con meno imbarazzo, perché con il vuoto ha da sempre un buon rapporto. Questa classe politica si merita Draghi. Non foss’altro perché le personalità del suo livello rispondono alle responsabilità verso la storia e non sono appese al titolo che farà un Giannini o un Sallusti.

Non solo i vertici dei partiti, ma anche quelli delle forze sociali e dei corpi intermedi, ne escono acciaccati. La loro stessa composizione sociale risulta inadeguata. Nel momento di maggior crisi del Paese i suddetti soggetti si accorgono di aver formato in molti casi non quadri preparati, militanti dotati di equilibrio, buon senso, radicamento sociale e territoriale bensì schiere di tifosi, in qualche caso di ultras telematici, che non sono più in grado di capire in virtù di che cosa, in questa ora grave, Leu dovrebbe stare al governo con la Lega piuttosto che il Movimento Cinque Stelle con Berlusconi. E sono anche da giustificare. Nessuno ha mai spiegato loro quali sono i nodi cruciali. A ogni loro accenno di porsi domande, di ragionare scattava la tagliola del politicamente corretto, che disabitua le persone all’uso dell’intelligenza, le allontana cronicamente dalla possibilità di cogliere la complessità dei problemi, gli enormi e diffusi paradossi di cui è fatta la realtà. Anziché fornire loro occasioni di sviluppo del senso critico sono stati sommersi di indottrinamento e propaganda fino alla dissonanza cognitiva, resi cioè, per paura della disapprovazione sociale, non più abili a collegare le cause con gli effetti. Si pensi solo, tra i molti esempi, alle materie economiche e a quelli delle politiche sanitarie. In economia, anziché riflettere sul rapporto causale tra austerità e aumento delle disuguaglianze, della povertà e conseguente perdita dei posti di lavoro, recessione si è fatto passare all’unisono il concetto di “austerità espansiva”, un evidente ossimoro ma che andava creduto per non incorrere nello stigma a raffica degli “-ismi” in negativo. Così in materia di lotta alla pandemia si è andato imponendo un clima di scientismo d’antan, di positivismo dai piedi d’argilla come se l’epistemologia contemporanea fosse stata messa al rogo dai Talebani, come se Karl Popper o Thomas Kuhn non fossero mai esistiti, che oggettivamente ha creato degli ostacoli al contrasto al virus. Solo perché abbiamo uno smartphone in mano (peraltro rigorosamente non europeo, perché nel nostro continente si è perso il know-how) pensiamo di avere il top della tecnologia, dimenticando che il digitale finirà velocemente, e di fronte all’era quantistica in arrivo sarà considerato l’età della pietra delle telecomunicazioni. Ci è stata inculcata l’idea che la scienza attuale sia una costruzione solida, inoppugnabile, oggettiva quando invece il suo avanzamento è sempre avvenuto grazie ai dubbi, all’ampiamento di visuale, e addirittura alla confutazione radicale delle certezze precedentemente raggiunte.

Per queste ragioni il governo Draghi sarà opportuno. Perché nella persona dell’ex banchiere potrà agire al di sopra degli schemi soffocanti e delle convenzioni non intelligenti, di bassissima lega, di un politicamente corretto al soldo di interessi e progetti tutt’altro che trasparenti, per realizzare ciò di cui il Paese (e l’Europa) ha bisogno. L’eredità migliore che potrà lasciare questo governo, se nascerà come tutto lascia intendere, sarà quella di aver insegnato un metodo: ai cittadini singoli, alle organizzazioni sociali, ai partiti. Quello di abbattere le pareti di vuoto che sono state erette perché i cittadini non potessero più portare in politica e nel dibattito pubblico le priorità vere di cui la politica si deve alimentare e occupare.

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