Il Pd è fallito, correnti allo sbando
Lo tsunami che ha investito il Partito democratico ripropone le parole, centrate e precise,
pronunciate alcuni anni fa da uno dei fondatori di quel partito, Massimo D’Alema. E cioè, “Il Pd è
un amalgama mal riuscito”. Parole dette molti anni fa ma che adesso assumono una valenza
profetica e che, paradossalmente, sono state certi cate proprio da un amico dello stesso
D’Alema, l’attuale segretario nazionale del Pd Nicola Zingaretti.
Ora, credo che nella storia dei partiti italiani non si era ancora mai visto che un segretario
nazionale, cioè il numero 1 di un partito votato dai cittadini attraverso le primarie, si vergognasse
del suo partito. Perchè le parole di Zingaretti non possono essere interpretate come uno sfogo
momentaneo o un’uscita estemporanea. Le parole dell’ex segretario del Pd, del resto, sono molto
facili da decifrare: e cioè, si tratta di un partito politicamente fallito anche se tecnicamente
prosegue la sua avventura. Un fallimento che potrà essere aggirato con i soliti espedienti e
accorgimenti di potere che verranno messi in campo nelle prossime settimane. Ma che ormai, ed
è evidente a tutti per dirla con un linguaggio caro alla sinistra post comunista, che quel partito, il
Pd appunto, ha “esaurito la sua sua spinta propulsiva”. E questo sia sotto il pro lo politico che
sul versante della sua organizzazione interna.
Sul terreno politico è indubbio che il Pd non è lontanamente paragonabile a quel “partito plurale”,
a “vocazione e maggioritaria” e capace di “unire i riformismi delle migliori culture politiche
costituzionali” del nostro paese. Oggi ci troviamo, dopo l’azione politica irresponsabile condotta
da Renzi e benedetta dal 70% dei renziani che lo hanno appoggiato incondizionatamente per
lunghi 4 anni e la seppur breve gestione di Zingaretti, un partito che viaggia attorno al 18% e privo
di un disegno politico strategico se non quello di puntare a restare saldamente al potere. A
prescindere anche da ciò che si è detto e pronunciato solennemente per molti anni. Del resto, la
rete è zeppa di citazioni, interventi e pronunciamenti solenni che poi sono stati sistematicamente
e puntualmente rinnegati nelle concrete scelte politiche. È del tutto evidente che un partito che
coltiva, giustamente, una grande ambizione politica di guida del paese di cilmente può convivere
con una gestione trasformistica della sua linea politica. Salvo, poi, annunciare continue
“ripartenze” e continue “rigenerazioni” che sono, purtroppo, solo la dimostrazione della propria
impotenza e del proprio fallimento politico e strategico.
Ma la vera crisi di questo partito è nella sua organizzazione interna. Che, probabilmente, è stato il
vero detonatore che ha provocato le durissime parole pronunciate da Zingaretti nel suo ormai
famoso post. Certo, un partito formalmente “plurale” non può che essere anche plurale nella sua
organizzazione interna. Ma dopo l’esperienza renziana del “partito personale”, l’ormai celebre
“Pdr”, per dirla con Ilvo Diamanti, il Pd è precipitato in una polverizzazione interna dove
francamente è di cile, molto di cile distinguere una sana e giusta articolazione correntizia da
una moltitudine di gruppi, gruppetti, sottocorrenti e tribù varie. Francamente è di cile governare
un partito del genere. E “lo stillicidio” – per usare le parole di Zingaretti – di critiche, di
contestazioni e di attacchi politici e personali a cui è stato sottoposto il segretario uscente del Pd
dalla minoranza ex renziana negli ultimi tempi è francamente inusitato. Ma, al di là dell’iniziativa
politica degli ex renziani, dove non si conosce ancora bene quale sia il disegno politico che lo
ispira, resta il fatto che una organizzazione del genere di cilmente è compatibile con un buon
funzionamento del partito. Nulla a che vedere, ad esempio, con l’esperienza e la tradizione di un
altro grande partito popolare plurale e che al suo interno era organizzato attraverso il metodo delle
tradizionali correnti, la Democrazia Cristiana. Ma c’è una di erenza di fondo tra queste due
esperienze, al di là della profonda diversità storica e politica dei due contesti. Nella Dc le correnti
erano espressioni di rappresentanze sociali da un lato e di sensibilità politica dall’altro. Certo, il
dibattito e la dialettica interna erano quantomai vivaci ma l’unità del partito era la bussola in cui
tutti si riconoscevano e, soprattutto, era prevalentemente un confronto politico e di prospettiva
politica. Il confronto tra la moltitudine di correnti, sottocorrenti, gruppi e gruppuscoli che animano
la vita interna del Pd è riconducibile prevalentemente a motivazioni personali. Perchè il pro lo e la
natura di questi gruppi non hanno una valenza politica ma sono solo lo strumento utile per la
distribuzione del potere interno al partito e nelle istituzioni. Nulla a che vedere, quindi, con la
tradizione politica ed organizzativa della Democrazia Cristiana o di altri partiti con un alto tasso di
pluralismo interno.Ecco perchè, forse, è arrivato il momento per formulare un giudizio politico de nitivo
sull’esperienza del Partito democratico. Certo, le parole del segretario uscente non sono state
dure, ma durissime. Come dicevo all’inizio, è la prima volta che capita nella storia dei partiti
democratici. Ma pensare di risolvere il problema con qualche marchingegno organizzativo o
qualche accordo al ribasso per conservare il potere non sarebbe altro che la plastica
dimostrazione del progressivo esaurimento di quella esperienza politica. È arrivato il tempo della
politica. La cultura del solo potere non è più sufficiente. Neanche per un partito che del potere ha
fatto la sua cifra distintiva.
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