Il messaggio di pace dell’Assemblea di Kingston
Kingston (Giamaica) – I giorni centrali della Convocazione ecumenica internazionale sulla pace di Kingston si sono sviluppati attorno ai temi: pace nella comunità, pace con la terra, pace nell’economia e pace tra i popoli. Si tratta, è evidente, di temi strettamente connessi l’uno con gli altri; ed è altrettanto evidente che parlare di pace rischia di rimanere qualcosa di generico, se non si ha la capacità di fornire delle indicazioni concrete su ciò che contribuisce a crearne le condizioni: per questo le discussioni di Kingston vanno intese come un chiaro segnale da parte delle chiese in ordine ad un rinnovato, fattivo impegno per la pace.
Ogni giornata è stata dedicata a uno dei temi sopra indicati. Il metodo scelto è stato quello del lavoro interattivo e di base. La mattina una serie di relazioni e/o di tavole rotonde approfondivano le questioni sotto vari aspetti, anche in relazione ai diversi contesti geografici; seguivano nel pomeriggio una serie di seminari e workshops, finalizzati ad approfondire ulteriormente le problematiche e ad offrire qualche frammento di soluzione. In ogni caso con uno stile fortemente interattivo, anche in considerazione del fatto che molti partecipanti erano persone con responsabilità non piccole a livello ecclesiale così come civile: gli apporti propositivi potevano dunque venire non soltanto dagli esperti chiamati a svolgere le relazioni e guidare i seminari, ma in buona misura anche dai partecipanti stessi.
Il primo tema (pace nella comunità) va accolto in senso ampio, a comprendere sia la comunità ecclesiale che quella civile. La comunità è il luogo nel quale le persone vivono, è l’humus naturale in cui l’esistenza di ciascuno può maturare e crescere. Ma è sotto gli occhi di tutti che la vita delle comunità raramente è segnata dalla pace. Più spesso regnano la violenza e le tensioni tra le persone e i gruppi. Come passare da rapporti di prossimità polemici e negativi a rapporti maggiormente vivibili quando non addirittura godibili? Perché dare per scontato che homo homini lupus, e non invece pensare che sia possibile costruire una città in cui vivere in armonia gli uni con gli altri? Purtroppo la violenza verso la donna, il razzismo o altre forme di discriminazione, la stessa violenza generata da forme più o meno esplicite di fondamentalismo religioso rappresentano piaghe tutt’altro che remote.
Tra le voci che hanno scandito la giornata, una ha avuto una eco particolare: quella di Martin Luther King III, avvocato per i diritti umani e capo della Southern Christian Leadership Conference, ultimo figlio del grande assertore della dignità e dell’uguaglianza tra le razze, ucciso a Memphis il 4 aprile 1968. «Ho un sogno, che un giorno questa nazione si sollevi e viva pienamente il vero significato del suo credo: “Riteniamo queste verità di per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono stati creati uguali”». Queste espressioni di un celebre discorso del grande leader nero rischiano di risuonare ancora oggi come verità incompiute: l’uguaglianza tra le persone sembra ancora un sogno più che una realtà. Ma questo significa che la comunità è malata, che ha bisogno di urgente rimedio sulla via di una pace vera tra tutti, nel reale riconoscimento della dignità di ogni persona umana.
Il secondo tema (pace con l’ambiente) è altrettanto urgente e rimanda a tutto il ventaglio di questioni legate al rispetto della creazione e dei suoi elementi. La creazione infatti non è stata posta nelle mani dell’uomo perché questi possa abusarne a piacere; al contrario, il mandato di Dio impone all’uomo un grande rispetto, una vera e propria cura di ciò che gli è stato affidato. Eppure i cambiamenti climatici che stanno devastando il pianeta minacciando la vita del genere umano sono sotto gli occhi di tutti. L’indebito sfruttamento delle risorse rischia di portare entro pochi decenni a conseguenze impensabili; le catastrofi ambientali si rinnovano con progressione tutt’altro che casuale, quasi logica conseguenza di un rapporto tra uomo e natura ormai compromesso. E’ indispensabile ritrovare il senso di un Dio creatore che è “madre e padre”, e dunque un legamo sereno con una natura di cui non dobbiamo dimenticare il carattere intrinsecamente sacrale, come richiamava sr. Ernestina Löpez Bac, studiosa di teologia indigena latinoamericana: l’occidente ha perduto il “rapporto con la terra” e forse alcuni popoli dell’America del Sud, dell’Africa e dell’Asia possono essere di stimolo verso una rinnovata comprensione del rapporto tra l’uomo e il creato.
Di qui una domanda imprescindibile: come comporre sviluppo e tutela dell’ambiente? Sarebbe ingenuo pensare a un ritorno alla condizione preindustriale, così come sarebbe scorretto non riconoscere come positivo il fatto che interi popoli costretti fino a un tempo relativamente recente al sottosviluppo, ora stanno muovendo passi decisi verso condizioni di vita maggiormente evolute. E d’altra parte tutto ciò deve trovare il modo di comporsi armonicamente con la tutela della natura. Risparmio energetico e biotecnologie sono alcuni dei filoni sui quali è necessario insistere in ordine al rispetto dell’ambiente. In particolare occorre che le chiese svolgano con estremo rigore la loro parte, denunciando gli errori e indicando in maniera chiara la strada di uno sviluppo sostenibile e rispettoso dell’ambiente.
E veniamo al terzo nodo, quello della pace nell’economia: un nodo quanto mai attuale, anche alla luce della crisi finanziaria ed economica nella quale il mondo versa ormai da diversi anni. “Non può esserci pace senza giustizia economica, e non può esserci giustizia economica senza un serio coinvolgimento di tutti”: questa una possibile sintesi dei lavori della giornata.
Troppi pensano che economia e giustizia siano due mondi separati, indipendenti: l’economia ha le sue leggi, la giustizia si pone ai margini dell’economia per correggerne le distorsioni. Occorre invece un cambio profondo: la giustizia deve porsi al cuore dell’economia, per dettarne i criteri di fondo e le linee di marcia. Una economia senza giustizia, un’economia che pensi che la giustizia sia soltanto un ostacolo al suo progresso, è infatti destinata a rivelarsi fallace e traditrice.
Un’attenzione specifica merita a tale riguardo il fenomeno delle migrazioni. L’articolo 13 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, votato dall’ONU nel 1948, riconosce ad ogni persona il diritto di muoversi liberamente e di scegliere di risiedere sul territorio di questo piuttosto che di quello stato. A distanza di 60 anni, cosa ne è di tale diritto? Purtroppo tale diritto è riconosciuto solo in linea di principio, non nei fatti. Del resto bisogna essere ciechi per non vedere lo stretto legame che sussiste tra migrazioni e sottosviluppo economico. A tutto ciò spesso si collegano ulteriormente condizioni di violenza e di non libertà nel proprio paese: in altri termini, è impossibile pensare a soluzioni se non su scala internazionale, incentivando percorsi di autentico sviluppo sociale ed economico.
Ma chi deve fare il primo passo? Tutti e ciascuno, nella consapevolezza che le cose cambieranno soltanto nella misura in cui sempre più numerose saranno le persone e le comunità che investiranno le loro energie – di pensiero e di azione – nella costruzione di un mondo giusto, anche a partire dalle regole di un’economia che ha urgente bisogno di nuovi valori e di nuove prospettive.
Veniamo all’ultimo filone, concernente la pace tra i popoli. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a una serie di questioni di notevole importanza, non da ultimo a causa di un contesto geopolitico che sembra deteriorarsi con il passare dei mesi. Si impone il desiderio di costruire rapporti e legami di pace tra i popoli e tra le nazioni; e questo impone che si deplori con schiettezza l’uso e la produzioni di armi, specialmente le armi di sterminio, così come lo sfruttamento delle difficoltà politiche di un altro paese allo scopo di facilitare i propri mercati, a partire da quello delle materie prime.
Nessuno pone in discussione l’importanza della sicurezza. Ma cosa significa “proteggere”? Significa inviare personale militare o non piuttosto deve comportare l’impegno di favorire lo sviluppo locale? O ancora, pensando a contesti particolarmente spinosi come il Medio Oriente: occorre una pace giusta, che sappia accogliere le istanze di tutti i popoli presenti in quell’area. Toccante da questo punto di vista è stata la testimonianza di mons. Avak Asadourian, arcivescovo armeno di Baghdad. Negli ultimi 30 anni l’Iraq ha conosciuto tre guerre, che hanno causato centinaia di migliaia di morti, impoverito l’economia e distrutto il contesto sociale. E’ tuttavia evidente che pace per l’Iraq deve significare pace per tutti gli iracheni, nessuno escluso. E soprattutto senza escludere i cristiani che, come ha sottolineato mons. Asadourian, non sono una piccola minoranza ma una presenza storica e radicata all’interno della nazione. Di rimando occorre incrementare i percorsi ecumenici: in Iraq le denominazioni cristiane riconosciute dal governo sono 14; i processi di pace devono essere sostenuti e promossi dai cristiani, e questo suppone una maggiore collaborazione tra le diverse confessioni.
Quella irachena non è comunque l’unica area dove il richiamo alla pace suona di estrema attualità. Gli esempi si potrebbero moltiplicare, passando da Isreale alla Libia fino ai molti conflitti che insanguinano il continente africano. Costruire la pace tra i popoli è compito di tutti e di ciascuno. Ed è un compito che deve toccare con particolare urgenza il cuore dei cristiani e delle chiese.
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