Lo specchio della nostra interiorità nascosta
Il Festival Verdi 2021 si apre con Gustavo III, versione originale di “Un ballo in maschera”.
di Alessandro Mormile
Il Festival Verdi 2021 si è aperto con l’edizione di Un ballo in maschera nella versione originale voluta da Verdi col titolo Gustavo III, poi bloccata dalla censura pontificia romana, che non poteva ammettere che un re potesse morire sulla scena, assassinato dinanzi ai suoi dignitari durante una festa in maschera. L’ambientazione dell’opera venne dunque spostata dalla Svezia settecentesca di re Gustavo alla Boston coloniale statunitense. Eppure, compito di un Festival è anche quello di far ricerca e, quindi, l’edizione vista a Parma ha riproposto le versione censurata, che presenta rispetto all’edizione realmente andata in scena nel 1859, non solo il cambio di ambientazione ma anche diverse modifiche al libretto più che alla musica.
Molto rumore per nulla per il nuovo allestimento, che avrebbe dovuto essere firmato da Graham Vick, purtroppo scomparso l’estate scorsa senza poter mettere in scena uno spettacolo che probabilmente avrebbe creato un nuovo “casus belli”. Così fu per Stiffelio, che ha Parma fece scalpore e che, fra detrattori e sostenitori, resta uno degli allestimenti più “forti” della sua carriera di regista; carriera che il festival parmense ha celebrato rendendo omaggio alla sua figura, ma anche tentando di giocare una carta non facile: quella di affidare a Jacopo Spirei, affermato regista che fu anche suo assistente, la firma di un allestimento intorno al quale – sulla base delle note di regia lasciate dal regista inglese – si è costruito una polemica a conti fatti sterile e fittizia. Probabilmente, se a metterlo in scena fosse stato Vick, si sarebbe individuata meglio la dimensione di quel monarca assoluto ma illuminato che fu Gustavo III, uomo che superò gli schemi consentiti dal suo tempo, convivendo con una condizione omosessuale che qui sembrerebbe declinata come idea di affrontare una vita senza limiti. Spirei, nelle sue note scrive: “È uno spettacolo che parla di limiti, di valicare i confini per spingersi oltre […] si parla di mascheramenti e di travestimenti, di come niente sia come appare, si parla di noi, delle nostre debolezze, delle nostre fragilità”.
A conti fatti lo spettacolo appare registicamente incompleto e non risolto, per di più non bello da vedere, per nulla scandaloso o provocatorio, anzi, anche un poco noioso nell’impianto scenico fisso di Richard Hudson a semiciclo di colore verdognolo, tagliato a metà per dar spazio ad un coro nascosto, mentre la scena è costantemente abitata da comparse che si travestono e si aggirano attorno a quello che appare essere il monumento funebre alato del monarca svedese. Qualche suggestione visiva vagamente brechtiana, qualche richiamo all’arte degenerata tedesca o, più ancora, alcuni espliciti riferimenti alle atmosfere della famosa ed ultima pellicola cinematografica di Rainer Werner Fassbinder, Querelle de Brest, aleggiano qua e là ma non approdano ad una visione registica compiuta, che così appare solo il cartone preparatorio di quello che probabilmente era nella mente del regista scomparso.
Sulla parte musicale si appoggiano le sorti di questo Gustavo III poco fortunato, anche se la bacchetta di Roberto Abbado non trova in orchestra quelle tinte caravaggesche capaci di illuminare la commistione così vincente che l’opera propone nel mischiare leggerezza e tragicità. Lo stesso personaggio di Gustavo III, nella sua pulsione erotica e nella gioia di vivere ammantata di spensierata vitalità, ha quale contraltare le tinte scure ed anche un po’ grottesche dei nobili congiurati Ribbing e Dehorn, o il sentenziare profetico misterioso della maga Ulrica. Ma per far luce su un’opera in cui Verdi scopre un mondo, quello dell’eleganza e del sorriso, ci vorrebbe una visione musicale più flessibile e meno plumbea.
Il cast vocale è tutto sommato buono, ma due cantanti si impongono su tutti. Il primo è il baritono mongolo Amartuvshin Enkhbat nei panni del Conte Anckastrom, col suo morbido ed intenso mantello di suono e l’espressività ancora perfettibile ma non tale da impedire di apprezzare una voce baritonale fra le più interessanti dei nostri giorni. La seconda è l’Ulrica di Anna Maria Chiuri, un capolavoro di musicalità e intelligenza attoriale ricercatissima, messe al servizio di una immagine del tutto inedita del personaggio, che per una volta toglie alla maga la scontata visione di sinistra fattucchiera per farne una provocante maîtresse immersa nel mondo di moralità perduta che l’attornia. Gli altri fanno del loro meglio. Certo Piero Pretti è un ottimo tenore, ma la parte di Gustavo III, seppure nell’insieme ben risolta vocalmente, anche in un settore acuto sempre svettante, richiede una maturazione espressiva per ora indefinita. Per l’Amelia di Maria Teresa Leva, che è un ottimo soprano lirico, siamo dinanzi ad un evidente errore di casting vocale, perché le caratteristiche della sua voce non rispondono certo alle esigenze drammatiche della parte e di un canto verdiano che ha dettami ben precisi, spesso disattesi da una voce che per non incorrere in troppi guai gioca in difesa. Giuliana Gianfaldoni è un discreto Oscar, canta benissimo ma la voce non è quella giusta per la parte. Ottimi nei ruoli di contorno Fabrizio Beggi (Ribbing), Carlo Cigni (Dehorn), Fabio Previati (Cristiano), Cristiano Olivieri (Il Ministro di Giustizia) e Federico Veltri (Un servo del Conte).
Prossimo appuntamento del Festival, dopo Messa da Requiem diretta da Daniele Gatti, il 9 ottobre, con Simon Boccanegra in forma di concerto, diretto da Michele Mariotti alla testa di un cast assai stimolante.
Foto Roberto Ricci, Teatro Regio di Parma.
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