75 anni fa, l’Istria non fu più Italia
Ben 75 anni ci separano dal trattato di pace del 10 febbraio 1947 quando l’Istria venne strappata all’Italia. Un’ingiusta frattura geografica, storica e culturale che ci privava di località a larga maggioranza italiana come Pola e Fiume. Tragico destino – tra esodo forzato e morte nelle foibe – per una popolazione che da secoli abitava in quella regione. Il Giorno del Ricordo serve proprio a non dimenticare le sofferenze di questi nostri connazionali che dovettero abbandonare la propria terra: un pezzo d’Italia che gli jugoslavi vollero ad ogni costo far propria.
Eppure anche di fronte a questi dati di fatto, storicamente documentati, si innescano assurde polemiche ideologiche. L’estrema sinistra, incomprensibilmente, minimizza o addirittura nega le foibe, considerando fasciste quelle popolazioni che non si vollero piegare al “paradiso” titoista. L’estrema destra dichiaratamente neofascista si è invece autoproclamata nume tutelare dei giuliano-dalmati, incurante di creare solo un sacco di problemi alle associazioni degli esuli.
Al di là delle polemiche, i fatti sono chiari. Le vittime delle foibe, circa 5mila persone, sono il frutto della volontà della Jugoslavia di Tito di cancellare la presenza italiana in Istria e Dalmazia. Qualche storico rifugge dall’utilizzo del termine pulizia etnica, preferendo parlare di violenza a carattere politico-sociale, avendo riguardato anche molti slavi anticomunisti. Quest’ultimo fenomeno ci fu senz’altro, a causa dell’atavico odio tra serbi e croati in una faida tutta interna al mondo slavo ma al tempo stesso è innegabile che gli italiani furono il principale bersaglio delle violenze. Tanto che la maggioranza di essi, almeno 300mila persone, decise di abbandonare la terra in cui era nata perchè risultava impossibile continuare a viverci.
L’antagonismo tra le due nazionalità è precedente al fascismo. Già nell’impero asburgico i rapporti tra la minoranza italiana e quelle croata, entrambe imbevute di nazionalismo, erano alquanto tesi. Lo scontro era già nell’aria, con Vienna che parteggiava per il panslavismo in chiave antitaliana. Dopo la Prima guerra mondiale, il nuovo confine, la linea Wilson (dal nome del presidente americano che fissò le frontiere), concesse all’Italia Trieste, l’Istria e Zara. La neonata Jugoslavia protestò con vigore poiché anch’essa rivendicava quei territori, esattamente come avrebbe fatto, con maggior fortuna, dopo il Secondo conflitto mondiale.
Il contesto era dunque già delicato prima dell’avvento del fascismo che ovviamente ci mise del suo. Non si possono però mettere sullo stesso piano le repressioni e le vessazioni, da condannare senza indugi, dell’Italia fascista sulla minoranza slava per una sua forzata assimilazione con le stragi compiute dai titoisti volte al totale sradicamento degli italiani dall’Istria. La reazione slava ai soprusi italiani fu assolutamente spropositata, giungendo a vette di rara efferatezza. Orrori che, in qualche misura, avremmo rivisto molti anni dopo nel conflitto serbo-croato degli anni Novanta.
Di certo avremmo potuto tenerci le comode frontiere ottenute dopo la Grande guerra e che nessuno mai avrebbe contestato. Fu l’irresponsabilità fascista, invadendo nel 1941 la Jugoslavia ed annettendo province sloveno-croate, a rimettere tutto in discussione. Si aprì un vaso di Pandora che per noi fu esiziale.
Queste le vicende storiche. Oggi, dopo esserci tutti quanti lasciati alle spalle il veleno nazionalista, siamo chiamati a guardare avanti e fare della regione giuliano-dalmata il luogo per eccellenza dell’incontro tra culture e popoli diversi. Obiettivo di fondo: la piena e reciproca tutela delle rispettive minoranze nella cornice della comune appartenenza europea.
Detto tutto questo resta comunque doveroso nel Giorno del Ricordo riflettere sul nostro passato e sul dramma di una popolazione che dovette abbandonare per sempre la propria terra. Italiani che, in molti casi, l’Italia non seppe accogliere a braccia aperte.
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