La vittoria di Pisapia, una lucidissima operazione della borghesia illuminata

Risultati elettorali dei ballottaggi alle amministrative.
(Primo tempo.) A Milano piazza Duomo invasa: marea arancione e piena di passione. Tante ragazze e tanti ragazzi come se sul palco dovesse salire Vasco Rossi. Norman Mailer descrive da par suo nel 1967 in Gli eserciti della notte la marcia sul Pentagono. Nell’Italia che fu di Berlusconi in questo 2011 dobbiamo accontentarci, anche se non è qui sul palco, della comicità del bravo Crozza, e a me non è dato capire se sia lui a imitare Bersani o viceversa. Del resto le sorprese coreografiche non mancano. Va’ a tutto volume l’inno di Mameli e questi ragazzi cantano a squarciagola l’Italia s’è desta levando i pugni: due cose che, ai miei tempi sessantottini facevano letteralmente a pugni. I katanga di Capanna e Cafiero levavano i pugni in piazza Santo Stefano, mentre i fascisti di La Russa cantavano l’inno nazionale in San Babila. Dunque, i cambiamenti del Bel Paese hanno bisogno di ritmi ventennali, ma avvengono. E cambiano (e mischiano) simboli, date, vocabolario. Così c’è una splendida serata di sole planata in questo 30 di maggio intorno ai pizzi del Duomo, ma per tutti è un nuovo 25 aprile. Comunque non è più vero che quando arriva la politica i giovani vanno da un’altra parte. Ho problemi anche con il vocabolario. C’è tutto il disastro possibile alla voce “frana”, che s’addice a una nazione da troppo tempo allo sfascio. Ma se aggiungo a “frana” l’aggettivo “berlusconiana”, muta, eccome, anche il sostantivo, e “frana” cambia allegramente di segno.

(Secondo tempo.) Dunque, Milano e Napoli sono cadute. “I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza”… E adesso giovani mamme della sinistra potranno chiamare Firmato il vispo nascituro. Abbiamo incominciato da Milano e limitiamoci a Milano. Merito di Giuliano Pisapia –libertador della metropoli meneghina dopo un ventennio inaugurato dal Formentini leghista di allora, a sua volta asceso a Palazzo Marino dopo il risotto in piazza (e altrove) di Tognolino e i suoi socialisti – è stato di farsi concavo anziché gonfiarsi come rana capopopolo, e raccogliere e accogliere, capire che la democrazia è ascolto. Una convinzione che mi procurò un aspro litigio anni fa con Ciriaco De Mita. Dunque abbiamo vinto noi, ma soprattutto hanno perso loro. Non solo la Moratti castellana, ma anche Berlusconi e Maurizio Lupi. Mi pare che in un’intervista Roberto Roversi paragoni la sinistra a un piccione per lunghi anni appollaiato sulla spalla del Berlusca, il quale sarebbe durato tanto per l’assenza di una proposta alternativa credibile ed efficace. Sto sempre con i poeti. Dunque, adesso comincia il bello e il difficile: inevitabile. Perché, oltre alla sconfitta, anche la vittoria pone problemi, così come il successo. C’è pure un proverbio arabo che dice grosso modo che è comunque meglio l’abbondanza della penuria. E non c’è bisogno di attendere l’apertura di una moschea sul suolo ambrosiano per consentire con l’ironia e il buon senso ovunque si trovino. Il passo è stato quello giusto, soprattutto per merito dei tre principali sfidanti delle primarie: Giuliano, Stefano Boeri, Valerio Onida. Il patto a tre di collaborazione e mutuo soccorso è risultato reale, visibile, convincente e quindi vincente. S’è sovrapposto e ha surrogato la permanente concordia discors del Partito. Accade. Sia lode all’Altissimo e alla saggezza laica di tre politici di razza che alla politica parevano soltanto prestati. Così le primarie continuano ad essere il mito originario (l’unico) del PD, e diffondono il contagio. Perché i documenti fondativi li hanno dimenticati anche quelli che li hanno scritti, e in presenza dei disastri del porcellum l’occasione unica di partecipazione dei cittadini restano le primarie. Non a caso l’uomo brianteo, il vecchio satiro di Arcore che ha importato dalla Libia, via gasdotto, il familiare bunga bunga, s’è affrettato a proclamare che questa è la legge elettorale migliore: appunto, non ci può essere democrazia rappresentativa senza rappresentanza. Il discorso finisce e comincia lì. Staremo a vedere l’ordine di priorità dei generali e colonnelli del ceto politico in carica che hanno espugnato (con truppe grazie a Dio non troppo disciplinate) la roccaforte della Madonnina. E Letizia ha avuto il buon gusto di evitare l’annuncio che avrebbe raddoppiato pure la statua in cima alle guglie per accrescere la letizia dei fervidi abitanti della ex capitale morale. Adesso godiamoci il successo mentre cerchiamo di capirne le vere ragioni e mentre chi di dovere ne trovi la migliore interpretazione negli assetti degli organigrammi. La politica infatti è passione generosa ma anche prassi amministrativamente rigorosa, anche quando si tiene lontano dal grigio. Un conto è vincere e fare propaganda. Un altro leggere e meditare Max Weber e agire con razionalità. Non guasta perciò uno sguardo retroattivo sul gioco di squadra e gli schemi che hanno consentito la vittoria, adesso che il genio pare essersi rifugiato nello sport miliardario e se vuoi goderne devi metterti davanti alla tv e guardare come Lionel Messi guida il Barcellona alla goleada. Solo un punto mi consento di mettere in pagella. E il voto più alto va a Piero Bassetti, sempreverde esponente della classe dirigente della prima Repubblica e regista lucidissimo dell’operazione borghesia illuminata. Con un messaggio implicito a lasciare il gossip degli stereotipi e a prendere la lunghezza d’onda della politica vera. Quella che non hanno imparato i molti che hanno omesso di leggere l’antico Aristotele e anche un Francesco Alberoni di qualche decennio fa che in L’élite del potere insegnava a distinguere tra divi e leader. Insomma, l’auspicio è che la performance milanese convinca tutti a lasciare alle spalle l’invasivo modello Santanché, che oltretutto colleziona sconfitte epocali.

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