Ciriaco De Mita, l’uomo che ragionava di politica
Ciriaco De Mita, scomparso nei giorni scorsi a 94 anni, era uno degli ultimi grandi della Dc. Apparteneva cioè a quella classe politica tanto vituperata, ben oltre i suoi reali demeriti, quando era in auge, quanto rimpianta oggi, al di là delle sue effettive virtù, venendo confrontata con la disarmante pochezza dell’attuale ceto dirigente.
Classe 1928, nativo di Nusco piccolo centro nei pressi di Avellino, dove è tornato negli anni scorsi per fare il sindaco, De Mita ha attraversato oltre sessanta anni di vita politica italiana. Parlamentare per dieci legislature, più volte ministro, il suo momento giunse nel 1982 quando divenne segretario della Dc, capofila della sinistra interna dopo la sconfitta della linea conservatrice del “preambolo” che aveva chiuso le porte a qualsiasi collaborazione con il Pci.
Il partitone bianco era in crisi: l’anno precedente aveva addirittura dovuto cedere palazzo Chigi al repubblicano Giovanni Spadolini e l’arrivo di De Mita a piazza del Gesù doveva proprio segnare l’inizio della riscossa. In realtà quelli furono gli anni del forte contrasto tra democristiani e socialisti, tra lui e il segretario socialista Bettino Craxi. Non erano fatti per intendersi quei due, forse persino caratterialmente, e il loro scontro fu un po’ quello di una Prima repubblica che stava tramontando.
Nel 1988 De Mita approdò a palazzo Chigi. Un fugace passaggio di un anno appena, senza particolari squilli. Ben più importanti le riflessioni, o per meglio dire, nel suo intercalare, i suoi famosi “ragionamendi” in materia istituzionale. Quello delle riforme e delle regole era da sempre il suo pallino, ritenendo, non a torto, che parte della crisi della politica fosse anche quella di un modello parlamentare da rendere più razionale.
La sua tesi era, per l’appunto, di rimanere nel solco del parlamentarismo, facendo però in modo che gli elettori potessero scegliere in anticipo tra coalizioni alternative con un programma per l’intera legislatura. Un’idea che andava ad urtarsi contro il presidenzialismo auspicato da Craxi. Questi, pienamente conscio dello scarso supporto elettorale del suo partito (al suo massimo il Psi ottenne il 14 per cento, la metà del peggior risultato della Dc), riteneva che l’elezione diretta, con la personalizzazione che ne sarebbe seguita, avrebbe potuto risultare un’efficace scorciatoia per giungere al potere.
Memorabili anche i dissensi con la Lega. ad Umberto Bossi disse che non bastava elencare i problemi ma occorreva anche trovare delle soluzioni. Diffidava di una politica tesa a semplificare, e a banalizzare, questioni complesse sulle quali sarebbe stato necessario trovare un punto di equilibrio che contemperasse la diverse istanze in gioco, anziché lanciarsi in slogan demagogici.
Proprio sul tema delle riforme vi fu un dibattito con Matteo Renzi, all’epoca impegnato a sostenere le modifiche costituzionali sottoposte a referendum confermativo. Un progetto che non lo convinceva affatto. E del giovane premier Pd, segnalò l’eloquio brillante, privo però di un pensiero politico davvero profondo.
Anche più di recente l’ironia demitiana ha avuto modo di tornare a farsi sentire. Successe all’inizio di quest’anno quando venne intervistato sulla corsa al Quirinale che vedeva Silvio Berlusconi come possibile candidato. Di fronte a questa ipotesi, che aleggiava nell’arena politica, rispose con un laconico e significativo <<E chi lo vota>>. Chiudendo il discorso senza possibilità di repliche. D’altronde lui che aveva fatto eleggere Francesco Cossiga al primo turno, sulla base di una proposta condivisa da tutto l’arco costituzionale (quello che fu battezzato “metodo De Mita”), non poteva che sorridere davanti al dilettantismo di una classe dirigente (si fa per dire) che stava solo tirando in ballo una serie di candidature improbabili.
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