Francia, un Parlamento senza maggioranza

Se non è proprio la fine della Quinta repubblica è comunque qualcosa che le somiglia molto. La repubblica gollista, nata nel 1958, caratterizzata dall’elezione diretta del Capo dello Stato nonché dalla preminenza del Governo sul Parlamento, si è sempre fondata su maggioranze parlamentari stabili, non importa se di centro-destra o di sinistra. Maggioranze assolute, grazie al doppio turno nei collegi uninominali, che a spoglio delle schede avvenuto, la sera stessa delle elezioni, facevano capire con chiarezza chi avrebbe governato per i successivi cinque anni.

Tutto questo fino a domenica scorsa quando, dopo il secondo turno delle elezioni legislative segnato da un’astensione record del 54 per cento, il presidente neo eletto, Emmanuel Macron si è ritrovato nell’inedita condizione di esser privo di una maggioranza parlamentare a suo favore. E d’altronde, dal voto non è neppure emersa una maggioranza a lui contraria, il che avrebbe condotto ad una coabitazione con un primo ministro di colore politico opposto al suo. Sempre però nel segno della stabilità, ovvero di un governo per l’intera legislatura, senza sottostare a lunghe e defatiganti e trattative per la formazione di una maggioranza.

Un’eventualità che ai francesi ricorda i tempi, non certo invidiabili, della IV Repubblica, tra gli anni Quaranta e Cinquanta, con governi che duravano meno di un anno e il Paese viveva in una permanente instabilità politica. Disponendo soltanto della maggioranza relativa il partito di Macron, Lrem (la repubblica in marcia) dovrebbe cercare un’intesa con altre formazioni politiche per conseguire la necessaria maggioranza assoluta raggiungendo, e magari superando, la soglia di 289 deputati che rappresenta il 50 per cento più uno degli eletti.

Il problema è che in Francia i diversi blocchi partitici sono tra loro del tutto impermeabili e la nozione stessa di un’alleanza ad urne chiuse tra chi si è duramente affrontato nella campagna elettorale pare estranea al mondo politico. Non a caso Macron nel suo primo intervento pubblico dopo le legislative ha escluso l’ipotesi di un governo di unità nazionale.

Quello che si prospetta è probabilmente una sorta di navigazione a vista, giocando su maggioranze variabili su questo o quel singolo provvedimento. A favore di Macron, e del primo ministro Elisabeth Borne, c’è il fatto che il sistema politico francese non prevede l’obbligo del voto di fiducia da parte del Parlamento. L’esecutivo seppur privo di maggioranza non vede dunque messa in discussione la propria esistenza. A meno che estrema destra, destra moderata e sinistra radicale non uniscano le loro forze votando una mozione di censura che manderebbe gambe all’aria non solo il governo ma forse anche il sistema stesso. Un’ipotesi però del tutto teorica, dato che risulta impensabile che la sinistra e i moderati vogliano sommare i propri voti a quelli di Marine Le Pen.

La prospettiva è quindi quella di un esecutivo che si appoggi di volta in volta alla sua sinistra o alla sua destra per far approvare questo o quel testo di legge, senza che sia messa in causa la sua stessa esistenza. In definitiva, uno schema che ricalca i famosi “due forni” di marca andreottiana. Qualcosa che da noi, abituati a mille bizantinismi, è una soluzione come un’altra ma che Oltralpe suona quasi scandalosa.

Certo tutto sarebbe più semplice se una parte dell’alleanza di sinistra (Nupes), magari gli ex socialisti confluiti sotto le insegne di Jean-Luc Melenchon decidessero, strappando con il loro ingombrante mentore, di fornire un pieno appoggio al governo, entrando in maggioranza. E un discorso analogo potrebbe farsi per i Repubblicani, di estrazione liberal-gollista, dove vi è un’anima centrista che non nasconde la voglia di ritrovare qualche portafoglio ministeriale. Per ora tutto tace. E del resto, è impensabile che, a pochi giorni dal voto, i diversi partiti politici possano immediatamente abbandonare l’intransigenza mostrata in campagna elettorale.

Nelle settimane a venire qualcosa potrebbe però cambiare e i toni ammorbidirsi di quel tanto che basta per giungere almeno a qualche forma di compromesso. La necessità di affrontare l’emergenza ambientale e la crisi economica e sociale rende difficile per le forze politiche riformiste e moderate sottrarsi a qualsiasi responsabilità, rendendo ingovernabile il Paese. Dopo decenni in cui il Parlamento ha contato poco, adesso c’è l’occasione di fare dell’aula parlamentare il baricentro della vita politica. Un’opportunità da non sprecare.

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