Una “Gioconda” misteriosa e onirica
Torna al Teatro alla Scala l’opera di Ponchielli nel nuovo visionario allestimento di Davide Livermore
di Alessandro Mormile
La Gioconda di Amilcare Ponchielli torna al Teatro alla Scala dopo venticinque anni. Opera bistrattata dalla critica ma amata dal pubblico, rappresenta una sintesi, a suo modo felice, fra il modello del grand-opéra alla francese e un teatro musicale all’italiana che anticipava il realismo verista. Il suo linguaggio musicale è comunicativo e immediato; ed anche quando la drammaturgia dell’opera risente di stanchezze e palesi incongruenze, la vena melodica e la teatralità avvincente ne fanno un prodotto post-verdiano fra i più felici del nostro melodramma. La Danza delle Ore resta una pagina popolarissima, così come lo è l‘aria di Enzo, “Cielo e mar”, fra le romanze più amate dai grandi tenori.
Il problema è che La Gioconda è un’opera assai complessa, che pretende tanto dai cantanti e non ammette compromessi vocali. Difficile è coglierne lo spirito, raggruppare in senso unitario la frammentarietà del suo linguaggio drammaturgico. Per darle coerenza è necessario prima di tutto amarla e Frédéric Chaslin, bacchetta che nel repertorio francese è fra le più apprezzate di oggi, sembra non farlo. La disorganicità della sua direzione, plumbea e spesso pesante in sonorità, oltre che avara di colori, non agevola certo i cantanti e costituisce l’anello debole di un nuovo allestimento di grande effetto scenico, ideato dalla regia di Davide Livermore, ormai di casa al Teatro alla Scala. Con scene di Giò Forma, costumi di Mariana Fracasso e video di D-Wok, il noto regista realizza una Venezia onirica e notturna, vista attraverso gli occhi della psiche impaurita più che di un realismo che tuttavia non impedisce al dinamicissimo tecnicismo di scene monumentali, formate da strutture a pannelli trasparenti (con ponti e particolari di palazzi veneziani che si compongono e scompongono a ritmo incessante), di trasmettere quanto pensato dal regista nel voler realizzare una Venezia grigia, misteriosa, minacciosa e quasi spettrale.
Il clima “spiritistico” è poi accentuato nel finale dell’opera, quando, prima che si apra l’ultimo atto, sulle note del preludio, Gioconda si suicida e da quel momento in avanti tutto viene raccontato come se fosse vissuto dal suo fantasma; scelta forzata ma non inopportuna in relazione alla visione un po’ fredda e glaciale di questo drammone a forti tinte.
Il cast vocale mostra più bassi che alti. Irina Chiurilova è una Gioconda dalla voce sonora ma così disordinata nell’emissione e squinternata fra i registri da apparire non degna di un palcoscenico come quello della Scala. Lo stesso Stefano La Colla (Enzo Grimaldo), che avrebbe voce di tenore bella e ben proiettata, lotta dall’inizio alla fine dell’opera con problemi di intonazione che gli compromettono la resa e rendono la sua esecuzione di “Cielo e mar” una prova al di sotto della sufficienza nonostante le buone intenzioni e l’impegno profuso per cercare qua e là embrioni di canto sfumato.
Roberto Frontali gioca il suo perfido Barnaba affidandosi all’accento più che ad una voce ormai asciugata nel timbro, mentre Erwin Schrott è un Alvise Badoero vocalmente autorevole ma dal temperamento spesso un po’ troppo fuori le righe. Daniela Barcellona, nei panni di Laura, mostra come il cambio di repertorio, da anni perseguito abbandonando a graduali passi il belcanto, non le giovi di certo, costringendola ad un canto ancora sostanzialmente sano ma tutto di fibra, senza sfumature e colori, che invece vengono esaltati da Anna Maria Chiuri (La Cieca), l’unica che canta dando senso alla parola, attaccando la famosa aria del rosario a mezza voce con un legato che rende onore ad un canto sempre meditato in funzione espressiva.
Magra consolazione dinanzi ad una compagnia di canto che conferma come l’esecuzione di quest’opera sia oggi sempre più problematica, se non quasi impossibile, anche ad un teatro prestigioso come quello scaligero. Le voci giuste per questo repertorio, c’è poco da fare, sono rarissime, od ormai solo più il ricordo di un passato glorioso. Negare questo teorema sarebbe cattiva fede, non antipatica posa nostalgica.
Foto Brescia & Amisano.
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