Vittoria di Lula, restano i limiti del presidenzialismo
In Brasile alla fine l’ha spuntata Lula, che dopo dodici anni torna alla presidenza. Una resurrezione politica per alcuni versi, simile a quella di Benjamin Netanyahu, nuovamente sulla ribalta del palcoscenico israeliano.
Vittoria netta ma però incompleta quella di Lula. Vediamo perché. Netto il successo lo è stato di sicuro: due milioni di voti in più rispetto all’avversario su 120 milioni di votanti non sono un’enormità ma esprimono comunque uno scarto indiscutibile. Vale la pena di ricordare che nel 1960 John Kennedy prevalse di appena 100mila voti sul repubblicano Richard Noxon. E nessuno ebbe da eccepire. Tanto meno Nixon che, anzi, si affrettò a riconoscere la vittoria del rivale, cosa che invece non ha ancora fatto il presidente carioca uscente, Jair Bolsonaro.
In ogni caso, seppur netta, la vittoria resta comunque incompleta. Osservando infatti il Parlamento, si nota che il Partito dei lavoratori (Pt), quello cui appartiene Lula, è in minoranza sia alla Camera che al Senato, mentre in entrambe le assemblee la maggioranza relativa è appannaggio del Partito liberale di Bolsonaro. In mezzo alle due formazioni principali c’è quello un vasto arcipelago di forze centriste, indispensabili per conseguire la necessaria maggioranza per approvare le leggi e quindi in grado di condizionare l’azione del prossimo esecutivo. In pratica si profila una sorta di coabitazione tra un Presidente di sinistra e un Parlamento non propriamente allineato sulle opzioni presidenziali. Servirà dunque la massima capacità negoziale del nuovo Capo dello Stato per ottenere il semaforo verde sui provvedimenti legislativi ritenuti essenziali per lo svolgimento del programma elettorale.
Chiariamo subito. In un sistema presidenziale nessun Parlamento può far cadere il Governo, che è di esclusiva nomina del Presidente e non deve neanche ricevere dalle Camere il voto di fiducia. Nessun voto contrario delle assemblee legislative obbliga l’esecutivo alle dimissioni come accade invece in qualunque sistema parlamentare.
La stabilità governativa non sarà mai messa in discussione ma, come si diceva prima, bisognerà trovare dei compromessi tra i diversi partiti presenti in Parlamento per far approvare le leggi. E’ probabile che i centristi si renderanno disponibili a collaborare, ma è chiaro che la sinistra sarà obbligata ad annacquare buona parte del proprio programma. Tutta da vedere quindi l’evoluzione del contesto politico.
Volendo fare qualche considerazione più generale, al di là dello specifico caso brasiliano, potrebbe dirsi che vediamo emergere la principale criticità del presidenzialismo. Il punto è che se in Parlamento il Capo dello Stato non è sorretto da una maggioranza a lui favorevole, finisce per avere meno poteri di governo di un normale premier in un classico sistema parlamentare.
Se il quadro politico è particolarmente frammentato qualsiasi piccolo partito, determinante per fare passare le leggi, si troverà a godere di una rendita di posizione che non mancherà certo di far valere. Qualora poi il clima politico diventi più teso qualsiasi compromesso si rivelerà impossibile. Lo si vede persino negli Stati Uniti, la democrazia per antonomasia. Il confronto tra democratici e repubblicani, un tempo improntato, almeno su certi temi (politica estera in primis) ad una leale collaborazione istituzionale, adesso volge quasi sempre allo scontro.
Pensiamoci bene dunque prima di abbandonare il collaudato modello parlamentare, prima di avventurarci lungo i sentieri del presidenzialismo. Quello che pare un sistema allettante, nasconde trappole insidiose che ne minano la stessa funzionalità.
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