“Boris Godunov”, il dramma del rimorso
Riccardo Chailly e Ildar Abdrazakov esaltano l’opera di Musorgskij nella versione originale
di Alessandro Mormile
Per l’inaugurazione della stagione 2022-2023 il Teatro alla Scala mette in scena Boris Godunov di Musorgskij diretto da Riccardo Chailly, la cui concertazione illumina di nuovi e geniali tratti la versione più scarna ed essenziale fra le molte esistenti di questo capolavoro, ossia quella originale del 1869, il cosiddetto “Ur-Boris”, che presenta una suddivisione in sette scene collegate luna all’altra con sequenza quasi cinematografica. Alla successiva, elaborata dal compositore nel 1872, in quattro atti e nove scene, seguirono quelle altrettanto note con le orchestrazioni di Rimskij-Korsakov e Šostakovič.
Per quest’occasione si è appunto preferita la versione in cui alla tragedia del popolo russo e all’imponente coralità dell’opera si antepone la sofferenza interiore dello zar Boris. Il suo rimorso per l’uccisone del legittimo successore al trono imperiale finisce per trasformarsi in follia, tragico epilogo catartico dello smarrimento e della fragilità dinanzi ai fatti politici che opprimono la coscienza dell’uomo incapace di dominare gli eventi. Se Boris paga con la sofferenza il prezzo del potere conquistato col delitto, la versione del 1869 proposta alla Scala (quella priva del cosiddetto “atto polacco” e dei personaggi di Marina e Rangoni) pone, più di ogni altra, l’accento su questo aspetto.
Direzione e spettacolo firmato dalla regia di Kasper Holten sono in piena sintonia nel narrare la storia dello zar Boris come uomo tormentato e perseguitato dai fantasmi delle sue colpe. Lo spettacolo le accentua, mettendo in scena un bambino insanguinato a simboleggiare lo spettro del piccolo Zarevic che appare in ogni scena allo zar infanticida fino a condurlo alla follia. Ma nel finale, ed è forse qui che lo spettacolo cade nella forzatura più evidente, Boris non si consuma e muore per la follia che è conseguenza dei suoi rimorsi, bensì viene assassinato da sicari cospiratori contro il suo regno minato dall’avanzare di Grigorij, il falso Dimitrij.
Per il resto l’allestimento, con scene di Es Devlin e costumi di Ida Marie Ellekilde, si sviluppa sull’onda di una visione di impronta tradizionale, capace di mettere ben in evidenza il contrasto fra il potere e la sofferenza del popolo russo oppresso dalla tirannide che trova, nella massa corale che soffre e nell’Innocente che è icona di questo eterno patire, il riflesso dell’anima russa.
L’impianto scenico è nella sostanza fisso e mostra un lunga pergamena che descrive a pannelli, attraverso scritti e disegni, la storia dell’epopea zarista, mentre al fondo della scena è riprodotta una cartina che raffigura gli sconfinati confini russi. L’idea della cartina geografica, che è una costante dello spettacolo, si ripresenta nel quadro della stanza di Boris, con il grande letto d’oro e un mappamondo, mentre il quadro dell’incoronazione mostra una porta dorata dalla quale esce Boris illuminato di luce. Il monaco Pimen, custode della tradizione russa, è presente in scena per volere del regista fin dall’inizio dello spettacolo, a simboleggiare il suo essere testimone della storia raccontata dai papiri che appaiono dinanzi agli occhi dello spettatore come immagini che segnano lo scorrere del tempo, fra sofferenze, guerre ed brutalità compiute in nome della conquista del potere. I costumi sono talvolta cinquecenteschi, altre volte senza tempo, le luci superbamente studiate per costruire uno spettacolo di innegabile suggestione.
Ancor più efficace, rispetto allo spettacolo, è la parte musicale, affidata ad un Riccardo Chailly in stato di grazia, che guida l’Orchestra scaligera in forma smagliante e un altrettanto superbo Coro, istruito da Alberto Malazzi, verso una concertazione dell’opera che sembra allontanarsi dall’asprezza della versione originale per ricercare, attraverso un fraseggio accuratissimo e un respiro sonoro denso e compatto, una lettura di grande intensità emotiva ed accorata sofferenza.
La medesima che si coglie in un protagonista di altissimo livello come il Boris di Ildar Abdrazakov, che nella scena dell’incoronazione appare già corroso da quel tormento che poco per volta gli mina la mente perseguitata dai rimorsi. Con un’emissione sempre morbida e una presenza scenica autorevole ma anche umanissima, il grande basso russo si impone soprattutto quando il fraseggio e gli accenti si fanno interiorizzati, come nel finale, cantato con una soffice mezzavoce e un dominio della scena che lo impone senza ricorrere ad inutili istrionismi.
La sua prestazione mette in ombra tutti, anche se il cast nell’insieme è buono, con l’unico anello debole nel Pimen poco convincente di Ain Anger. Ottimi i tenori Dmitry Golovnin (Grigorij), Yaroslav Abaimov (L’Innocente) e il Principe Šujskij di Norbert Ernst, anche se quest’ultimo poco incisivo ed insinuante come il duetto con Boris richiederebbe.
Efficace il Varlaam di Stanislav Trofimov e imperioso l’Andrej Ščelkalov di Alexey Markov. Nelle rispettive parti di Ksenja e Fëdor, i figli di Boris, Anna Denisova e Lilly Jørstad assolvono più che bene al loro compito, così come validi sono gli altri interpreti di questo Boris, accolto dal pubblico, alla prima del 7 dicembre come alla recita del 23 dicembre della quale riferiamo, con grandi acclamazioni.
Foto Brescia e Amisano.
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