Il Pd e un’idea di successione a questo ventennio
Le elezioni amministrative dello scorso maggio nonostante abbiano coinvolto appena un terzo dell’elettorato hanno dato una chiara indicazione. L’aumento dello scontento sociale per effetto dell’avanzare della crisi economica, unito allo sconcerto per comportamenti morali privati a dir poco discutibili, ha prodotto una rilevante quota di astensionismo tra gli elettori del centro destra e segnatamente fra quelli del Pdl. Ciò ha permesso alle forze di centro sinistra per lo più unite e con candidati credibili, di ottenere importanti e simboliche vittorie, come quelle di Milano e Napoli, sulla base di un consenso sostanzialmente uguale a quello di precedenti elezioni in cui risultavano molto spesso perdenti, soprattutto nel Nord del Paese.
È evidente che qualcosa si è rotto nel rapporto fra Pdl e Lega, e quel blocco sociale culturalmente moderato e socialmente popolare che ha dimostrato davvero molta pazienza nei confronti della lunga stagione berlusconiana, dilatata ben oltre i limiti di un fisiologico ricambio e scelta come male minore, in mancanza di un’alternativa capace di attrarre il consenso della maggioranza degli Italiani.
In un tale nuovo scenario si dischiude un grande spazio per l’iniziativa politica del Partito Democratico, le cui prossime scelte sulle questioni cruciali non saranno prive di conseguenze sulle successive evoluzioni del quadro politico.
Si possono indicare almeno tre ordini di problemi dal cui confronto si capirà se il Pd riuscirà a guidare la nuova fase politica che si sta aprendo e che una più che probabile riuscita dei referendum del prossimo 12 e 13 giugno potrà solo accelerare.
Una proposta di legge elettorale
Il primo riguarda il tipo di lettura del tramonto politico del “berlusconismo”. Questa seconda repubblica, fondata su un bipolarismo “muscolare” che coalizza i partiti solo sull’avversione per lo schieramento avversario, potrà sopravvivere all’uscita di scena di colui che in questi anni è stato il più abile di tutti a cogliere i frutti di questa polarizzazione per molti versi surreale o quantomeno anacronistica?
Il trasformismo crescente, frutto dei sistemi elettorali maggioritari, le liste bloccate che violano apertamente il diritto, riconosciuto dalla Costituzione (art. 56 e 58), di scelta da parte dell’elettore dei parlamentari, l’attribuzione di “premi di maggioranza” a tutti i livelli istituzionali, che ricalcano la filosofia della famigerata legge Acerbo, dovrebbero costituire degli argomenti sufficienti per mettere in discussione la stessa architettura della “seconda repubblica”.
Ecco perché il Partito Democratico, se vuole davvero guidare l’alternativa, dovrà saper esprimere innanzitutto un’idea di successione a questo sistema.
E questo lo si fa essenzialmente proponendo una riforma della legge elettorale che restituisca il potere di scelta all’elettore sia dei candidati (con le preferenze o con i collegi) che delle coalizioni. Le diverse leggi per gli Enti Locali e, dal 2006 quella per il parlamento, hanno limitato la scelta delle coalizioni a quelle create prima del voto dalle segreterie dei partiti o dalle oligarchie locali. Ma quando nessuna coalizione ottiene la maggioranza assoluta dei voti, in democrazia si fanno le coalizioni anche dopo il voto (come è successo l’anno scorso persino nella patria dell’uninominale maggioritario, il Regno Unito), e non si fa un poco onorevole ricorso all’istituto del “premio di maggioranza”. Questo non significa in alcun modo tornare ad una situazione di instabilità degli esecutivi, anzi rappresenta l’esatto contrario.
La bozza Bressa di riforma dell’attuale legge elettorale rappresenta un primo apprezzabile passo della segretaria Bersani in questa direzione, più dal punto di vista politico che per il suo contenuto. Infatti, sebbene il doppio turno appaia poco convincente, il punto vero è la ripartizione proporzionale dei collegi uninominali. Se si vuole dare il colpo di grazia a questo sgangherato sistema della “seconda repubblica” e porre le basi per un bipolarismo autentico, bisogna puntare all’assegnazione proporzionale di una alta percentuale di seggi, certamente superiore al 50%, fermo restando il fatto che il sistema elettorale più democratico e più adatto all’Italia è probabilmente quello proporzionale, con preferenze o con i collegi uninominali, e naturalmente con tutti gli opportuni correttivi.
Mettere in campo idee nuove
Ma è soprattutto il piano della proposta programmatica, quello sul quale il Pd dovrà concentrare la propria iniziativa. Per essere credibili verso gli elettori occorre innanzitutto determinare un ordine di priorità e queste non possono che essere quelle più sentite dai cittadini, come il lavoro, lo sviluppo economico e sociale, le prospettive per le giovani generazioni, il mantenimento di un tenore di vita decente per tutti, in particolare per i soggetti più deboli.
Tutti questi obiettivi stanno barcollando a causa di una crisi che lascia intravedere la compresenza di svariati fattori negativi (disoccupazione, impoverimento, speculazione, guerra …) più che imminenti vie d’uscita.
Se i Democratici sono consapevoli di non aver ancora riportato una vittoria politica, ma solo di aver tenuto di fronte alla disaffezione al voto degli elettori del centro destra, a maggior ragione dovranno concentrarsi nei prossimi mesi per mettere in circolazione idee nuove, nelle politiche economiche, nello spazio comune europeo, nelle relazioni internazionali, per prevenire e disinnescare quel mix potenzialmente esplosivo, costituito dal manifestarsi in concomitanza su diversi piani degli effetti della crisi.
La vera competizione col centro destra, il cuore del bipolarismo, si deve manifestare su questo terreno, su chi ha idee migliori, o semplicemente avverte prima le risposte più adeguate di fronte all’attuale emergenza sociale ed economica.
Solo un partito plurale protagonista della nuova fase
La terza sfida con cui il Pd deve misurarsi per porsi come riferimento al termine del tunnel del berlusconismo e della “seconda repubblica” è quella del proprio profilo culturale e politico.
Non è questione di etichette, bensì di sostanza. Un Pd che dovesse consolidare la sua appartenenza alla famiglia politica dei socialisti europei, unirsi in un unico partito con Sinistra e libertà, far proprie le provocazioni libertarie e relativiste dei Radicali, sarebbe cosa ben diversa da un Pd partito plurale dove il riformismo di sinistra convive e interagisce con quello cristiano democratico, popolare, di centro, di quanti traggono laicamente ispirazione per il proprio impegno politico dalla Dottrina sociale della Chiesa.
Solo se prevarrà questo secondo profilo, il Partito Democratico potrà seriamente pensare di esercitare un ruolo centrale nella nuova fase politica che si sta aprendo e sarà capace di rivolgersi e rappresentare un elettorato più ampio di quello della sinistra. Inoltre, solo un Pd siffatto potrà apparire significativo a tante importanti componenti del cattolicesimo politico e sociale che altrimenti sono destinate a trovare una parte in quel processo di ricomposizione dell’area moderata già in atto per il dopo-Berlusconi.
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