“Nabucco” come specchio dei sofferenti di ogni tempo ed epoca

Toccante e suggestivo allestimento dell’opera verdiana a Sordevolo per la stagione estiva del Teatro Coccia di Novara.

Alessandro Mormile

Osare e sperimentare sembra essere una costante del Teatro Coccia di Novara. Infatti, Corinne Baroni, che guida il teatro novarese con passione e intraprendenza, dopo aver assistito lo scorso anno alla nota Passione di Cristo nel Comune di Sordevolo, ed ammirando questa sacra rappresentazione (proposta ogni cinque anni in questa cittadina del biellese con la compartecipazione attoriale dell’intera cittadinanza), ha pensato subito che questo luogo, l’Anfiteatro Giovanni Paolo II, fosse adatto ad ospitare anche l’opera. Si è trattato col Sindaco e con il Presidente della Associazione Teatro Popolare di Sordevolo, i quali hanno aderito con entusiasmo alla proposta insieme a molti sponsor che hanno sostenuto l’iniziativa, per di più indirizzata a mettere in scena un titolo operistico come Nabucco di Verdi, carico di significati simbolici e rituali affini alla rappresentazione di Sordevolo. Detto fatto. Il risultato dell’operazione è stato superiore ad ogni più rosea previsione, anche per la qualità dell’allestimento e per la cura con cui è stato selezionato il cast.

Cosa colpisce, anzi emoziona, è la profonda sensibilità con cui la regia di Alberto Jona ha pensato ad un allestimento che a suo modo è parso grandioso oltre che suggestivo in uno spazio che non ha modo di predisporre cambi di scena, ma ha suggerito al regista e allo scenografo Matteo Capobianco uno “scrigno di veli dorati” – così lo definiscono gli autori dello spettacolo – che mossi dal vento vengono illuminati dalle splendide luci disegnate ad arte da Alberto Jona stesso, realizzate con la collaborazione di Ivan Pastrovicchio, e passano dall’oro al rosso, dal verde al blu, tanto che alle luci viene donato il potere di una forza narrativa coinvolgente, quasi emotiva. Alcuni elementi scenici fanno riferimento all’archeologia antica, mentre ai lati del palcoscenico, su scalinate degradanti, si muove il popolo degli oppressi, quelli di ogni tempo, con uno slittamento temporale, fra mito e contemporaneità, utilizzando alcune comparse che solitamente prendono parte alla Passioni di Sordevolo per richiamare l’immagine non solo del popolo ebraico oppresso dalla Shoah, ma anche degli ultimi dei nostri tempi, coloro che sfidano i mari in cerca di salvezza, in fuga dalle loro nazioni: i profughi, gli emigrati ai quali spesso è riservato il tragico destino che sappiamo. Ed ecco che il tempo si ferma per divenire simbolo della sofferenza che attraversa le epoche e non risparmia gli umiliati. Tutto sembra riflettere una condizione di sofferenza iconica, che lo spettacolo realizza con profondità di pensiero davvero toccante. 

La potenza evocativa di questo bellissimo spettacolo è molta, ma anche l’abilità di costruire effetti scenici suggestivi con pochi mezzi è ancor più geniale se si pensa come i pochi elementi scenici messi sul campo si trasformino, come per magia, nel sogno di luci che restituiscono ogni istante dell’opera senza forzature registiche, con un figurativismo meditato, elegante e di gran classe anche quando evocativamente simbolico.

Lo spettacolo basterebbe a se stesso, ma l’altra sorpresa di questo coraggioso allestimento di Nabucco a Sordevolo viene dalla parte musicale e vocale. La bacchetta di Francesco Rosa, alla testa dell’Orchestra Filarmonica Italiana e dell’ottimo Coro Schola Cantorum San Gregorio Magno istruito da Mauro Trombetta (in bell’evidenza nel celebre “Va’, pensiero”), è consapevole di come questa partitura possegga quella raffinatezza che va ben al di là del Verdi “bandistico” fatto di marce e ritmi marziali; ed ecco che le finezze che si ammirano nei momenti più lirici sono utili anche a sostenere al meglio una compagnia di canto di tutto rispetto.

Forse il solo basso Deyan Vatchkov, pur possedendo tutte le note necessarie per l’impervia parte di Zaccaria, mostra qua e là qualche fatica ampiamente compensata dal buon rendimento complessivo. Il soprano France Dariz, nei panni di Abigaille, svetta in acuto senza alcun affanno, con baldanza ammirevole e ardita, anzi aggiunge anche acuti fuori ordinanza e regala bei momenti di abbandono lirico in “Anch’io dischiuso un giorno” e nel finale dell’opera.

Artisticamente ancor più rifinito è il Nabucco del baritono Angelo Veccia, che debutta nel ruolo e lo consegna sia vocalmente che scenicamente come se lo avesse in repertorio da anni. Frutto certo di una buona tecnica e di una sensibilità espressiva che lo porta ad essere autorevole nell’accento, solido nella resa vocale, ma anche ispirato nel raccogliere elegantemente l’emissione in diversi momenti dell’opera, dove dimostra di saper cantare piano e di colorare le frasi ad arte senza mai perdere il senso del legato. Così lo si ammira in “Chi mi toglie il regio scettro?”, nel cantabile del duetto con Abigaille “Deh perdona, deh perdona” e, ovviamente, nell’aria “Dio di Giuda!”, chiosata da una cabaletta dove svetta in acuto senza esitazione alcuna.

Fanno da bella corona ai ruoli principali il buon Ismaele di Emanuele D’Aguanno, l’intensa Fenena di Giulia Diomede, Bing Li (Il Gran Sacerdote), Clementina Regina (Anna) e Andrij Severini (Abdallo). Da non dimenticare Irene Paloma Jona, che danza nei panni de La Speranza, una parte che non esiste nell’opera, ma in questo specifico contesto registico evoca l’immagine simbolica di positività: una sorta di spirito del bene, di verde vestito, che elegantemente offre l’immagine di quel vento ben augurale che soffia sulle difficolta dei sofferenti offrendo a tutti specchi di riscatto e di futuro migliore per chi ha patito e patisce persecuzioni e umiliazioni. Successo vibrante e meritato per tutti.

Foto di Claudio Burato.

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