Cile, 50 anni fa la fine di Allende
Prima del tragico assalto alle Torri gemelle di New York, nella nostra memoria c’era un altro 11 settembre: quello del 1973, quando in Cile un golpe militare travolse il legittimo presidente Salvador Allende.
Di quei giorni ormai lontani tornano alla mente i carroarmati nelle vie di Santiago e gli aerei che bombardano la Moneda, il palazzo presidenziale dove Allende consumò le sue ultime ore. Morendo senza arrendersi ai golpisti. In quella primavera australe di mezzo secolo fa, in Cile moriva una democrazia consolidata da decenni sotto i colpi del tradimento di una casta militare sino a quel momento leale con le istituzioni. Come si giunse a tanto? Cosa aveva trasformato il placido Paese andino in una polveriera che da quell’istante ebbe gli sguardi del mondo puntati addosso?
Per comprendere cosa era accaduto occorre riavvolgere il nastro di tre anni. Nel settembre del 1970 Allende candidato di Unità popolare, cartello di tutte le sinistre, risultò con il 36 per cento dei suffragi il più votato nelle elezioni presidenziali. Un minimo scarto, appena 40mila voti, lo separava però dal suo inseguitore, Jorge Alessandri, capo fila della destra, mentre staccato, in terza posizione, si collocava il democristiano Radomiro Tomic.
La Costituzione cilena prevedeva che qualora nessun candidato avesse ottenuto la maggioranza assoluta dei suffragi a decidere sarebbe stato il voto del Parlamento. E a quel punto la volontà dei parlamentari avrebbe anche potuto sospingere alla Moneda il candidato della destra. I democristiani decisero di sostenere Allende rispettando appieno il verdetto scaturito dalle urne. In pochi mesi furono approvate leggi sulla sanità pubblica, sui diritti dei lavoratori e vi fu la nazionalizzazione dell’industria del rame, quest’ultima in mano quasi interamente americana. Un programma riformatore che anche la Dc di Tomic sottoscriveva in pieno e che avrebbe potuto costituire la base per una classica maggioranza di centro-sinistra. Un programma che però toccava molti interessi costituiti compresi quelli delle grandi multinazionali statunitensi. Per bloccare quella che Washington vedeva come una deriva di stampo cubano il governo di Allende doveva essere rovesciato. E per raggiungere quell’obiettivo furono impiegati tutti i mezzi.
Nel giro di un anno, complice una difficile congiuntura economica, cui non erano estranee le manovre americane, la situazione sociale del Paese peggiorò notevolmente. Anche il contesto politico si era radicalizzato. La Dc che frattanto aveva mutato leadership – dal progressista Tomic al conservatore Patricio Aylwin – si era convinta, unendosi alla destra, che bisognasse, in qualche modo, chiudere l’esperienza di Unità popolare. Se necessario, anche con un temporaneo intervento delle forze armate. Un’incredibile miopia politica – quella di mettere in crisi la democrazia per ottenere un cambio di governo – di cui i dirigenti Dc si pentiranno amaramente negli anni successivi.
Il resto lo conosciamo bene. Augusto Pinochet, nominato alla guida dell’esercito poche settimane prima del golpe, perché ritenuto un leale uomo d’apparato (quale clamoroso abbaglio!), si unì ai comandanti della marina e dell’aeronautica (armi dalle quali era partita la rivolta) e in breve si autoproclamò capo della giunta militare. Ne scaturì una ferrea dittatura con sanguinose repressioni di qualsiasi opposizione e con un programma economico del tutto piegato alle esigenze del più selvaggio capitalismo.
A Santiago la democrazia tornò soltanto sul finire degli anni Ottanta. Fu un referendum – indetto nel 1988 da Pinochet per consolidare il proprio potere e vinto invece da un’ampia coalizione che andava dalla destra moderata all’estrema sinistra – a restituire ai cileni la libertà. Quella spazzata via dal golpe che tre lustri prima aveva distrutto il sogno di Unità popolare.
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