Governo Spagna, dopo Feijòo tentativo di Sanchez

In Spagna, dopo il fallito tentativo di Alberto Nunez Feijòo, leader del Partito popolare (Pp), tocca all’attuale premier socialista Pedro Sanchez provare a dar vita ad una maggioranza di governo. Incarico formalmente ricevuto nei giorni scorsi dal Capo dello Stato, Felipe VI.

Sanchez punta a riproporre la coalizione di sinistra, Psoe e Sinistra ambientalista (Sumar), alla guida del Paese dal 2019 grazie all’appoggio esterno delle formazioni nazionaliste. Il presidente incaricato ha iniziato le consultazioni partendo dalle forze che hanno fatto parte della sua maggioranza e incontrando il popolare Feijòo, capofila dell’opposizione conservatrice. Nessun contatto invece con Santiago Abascal, leader di Vox, formazione di estrema destra, con cui il Psoe non vuole avere rapporti di alcun tipo. Fosse anche solo un semplice confronto politico e questo, a dirla tutta, ci pare un errore, mancando di rispetto ai cittadini che hanno votato questa lista.

Dopo questo primo giro di colloqui dovrebbe seguirne un secondo, ristretto ai soli partiti chiamati a vario titolo a sostenere la maggioranza. Toccherà quindi alla presidente del Congresso dei deputati, la socialista Francina Armengol, fissare la data per la formale investitura del candidato premier dinanzi al plenum dell’assemblea parlamentare.

La Costituzione spagnola concede al presidente designato due possibili votazioni per entrare in carica e divenire capo del governo. Nella prima occorre che il candidato ottenga il voto favorevole della maggioranza assoluta del Congresso. Nella seconda il quorum si abbassa e al candidato è sufficiente ricevere un numero di voti favorevoli maggiore rispetto a quelli contrari. Nel calcolo non viene computata l’astensione, rendendo più agevole l’investitura.

Qualora in entrambe le sessioni il presidente incaricato non consegua i voti necessari e non vi siano altri potenziali candidati in grado di ricevere l’approvazione del Congresso si apre automaticamente la strada a nuove elezioni. L’intero percorso per dar vita ad un nuovo esecutivo deve concludersi entro sessanta giorni dall’investitura da parte del Capo dello Stato. Nel caso attuale, Sanchez è stato incaricato dal sovrano il 27 settembre. L’iter dovrà completarsi entro il 27 novembre, limite massimo oltre il quale si tornerà alle urne. Anche perchè non ci sono altre candidature disponibili.

Va infatti rammentato che in questa legislatura – iniziata dopo le elezioni dello scorso 23 luglio – Sanchez è il secondo leader cui è affidata la formazione di un governo. Prima di lui ci aveva provato Feijòo. Un tentativo andato a buca. Dalle urne è infatti scaturito un Parlamento molto frammentato e il Pp, pur essendo il partito più votato, ha conquistato appena 137 seggi. Trentanove in meno della maggioranza assoluta fissata a quota 176 (essendo 350 i seggi complessivi del Congresso). Soglia raggiungibile solo contraendo un’alleanza con altre forze politiche.

Unica forza disponibile è stata Vox, portando in dote i suoi 33 deputati. I sei voti mancanti al centro-destra avrebbero potuto giungere – questa l’aspettativa di Feijòo – dal Partito nazionalista basco (Pnv) di ispirazione democristiana e, almeno sulla carta, politicamente non troppo distante dal Pp. Intesa sfumata per la presenza nel futuro governo di Vox, il cui centralismo, in evidente stile neofranchista, risulta del tutto incompatibile con chi punta su maggiori dosi di autonomia e desidera una Spagna plurinazionale. Per il Pp, insomma, la classica coperta corta: l’indispensabile sostegno di Vox non gli ha permesso di allargare la coalizione neppure agli autonomisti più moderati.

Nel momento in cui Feijòo è stato costretto a gettare la spugna è giunto il turno di Sanchez che punta sulla riconferma dell’intesa tra le forze di sinistra e le formazioni nazionaliste con cui ha governato negli ultimi quattro anni. I problemi però non mancano. Anzi, si sono ulteriormente accentuati con il voto di luglio che ha reso decisivi i due partiti catalani: Erc (Sinistra repubblicana) e Junts, di matrice liberale. A differenza della scorsa legislatura, quando Erc si era astenuta e Junts aveva addirittura votato contro il governo Sanchez, oggi per far nascere un nuovo esecutivo di sinistra è necessario il voto favorevole di entrambe le formazioni.

Questo consente loro di alzare la posta. Non a caso per concedere il via libera le forze catalane chiedono un’amnistia per tutti i partecipanti al referendum sull’indipendenza della Catalogna celebrato illegittimamente il 1° ottobre 2017 e l’avvio di un percorso di autodeterminazione. Due scogli difficili da sormontare, sebbene sull’amnistia il presidente incaricato abbia mostrato una certa apertura. Del tutto avverso a questa ipotesi è il centro-destra. Sia il Pp che Vox considerano un eventuale provvedimento di clemenza alla stregua di un attentato all’unità della Spagna e – non a torto – accusano Sanchez di non aver mai parlato di amnistia al momento di chiedere il voto degli elettori e di farlo adesso solo per guadagnare il consenso del nazionalismo catalano e mantenersi al potere ad ogni costo.

Malumori emergono anche dalle file socialiste, in particolare da parte di alcuni leader storici del Psoe, come l’ex capo del governo Felipe Gonzales e il suo vice, Alfonso Guerra che ritengono inammissibile qualsiasi colpo di spugna. Si tratta, dicono, di un’aperta violazione della Carta costituzionale e un tradimento del Patto della Transizione democratica concluso con il centro-destra nel 1977, dopo la dittatura di Franco. Dal canto suo Sanchez garantisce che non si uscirà dal solco tracciato dalla Costituzione. Nessuna fuga in avanti dunque, ma solo la volontà di costruire una Spagna rispettosa di tutte le nazionalità esistenti.

E’ presto per fare previsioni su come evolverà il quadro politico. In questo momento il leader del Psoe, ed attuale capo del governo, può contare su una solida intesa con Sumar, la sinistra radicale capeggiata da Yolanda Diaz. Un accordo basato su tre punti chiave: tutela del lavoro, ampliamento dei diritti e transizione ecologica, sulla scorta di quanto già realizzato nella scorsa legislatura. Insieme contano 152 seggi. I 24 voti che mancano per la maggioranza assoluta dovranno pervenire dal campo nazionalista: sia quello basco che catalano. Se è pressochè scontato l’appoggio del Pnv, regna la massima incertezza sui baschi di Eh-Bildu e sui nazionalisti catalani. Sanchez è disposto a concedere qualcosa ma non può certamente uscire dai binari della Costituzione.

In caso di fallimento delle trattative si tornerebbe di filato alle urne. Nuove elezioni che, secondo i sondaggi, potrebbero arridere al fronte conservatore, portando alla guida del Paese una coalizione tra Pp e Vox. Ai catalani non conviene tirare troppo la corda mettendo i bastioni tra le ruote alla nascita di un esecutivo di sinistra, di sicuro più aperto alle loro esigenze.

Magari sarebbe invece il caso di cambiare schema. In una fase tanto complessa come quella attuale – che da un lato vede una forte spinta indipendentista e dall’altro le pressioni di una forza reazionaria come Vox – servirebbe un’intesa di governo tra Pp e Psoe, i due partiti che diedero vita alla Transizione. Una grande coalizione potrebbe consentire di affrontare l’attuale instabilità politica superando molte delle divisioni che segnano il Paese. Il fatto è che diversamente dalla Germania, dove democristiani e socialdemocratici hanno saputo governare insieme, in Spagna popolari e socialisti sembra non riescano ad accordarsi. E forse questo è il vero problema del bipolarismo iberico.

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