Di fronte alla riforma costituzionale del premierato urge costruire una nuova e diversa cultura democratica
La riforma costituzionale per l’elezione diretta del premier, presentata dal governo Meloni, tutto può considerarsi fuorché un fulmine a ciel sereno. Essa rappresenta il naturale sbocco di un lungo processo di destrutturazione della vita democratica iniziato negli anni novanta. Dapprima con un’offensiva giudiziaria sulla politica che ha assestato danni permanenti alla qualità dei partiti politici, contribuendo a snaturarli in congreghe fondate sul culto indiscutibile del leader di turno, dietro il quale si organizzano gli interessi di gruppi di interesse, in un modo molto meno trasparente e partecipato che nella cosiddetta prima repubblica. Nel contempo l’introduzione dell’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di regione, in una forma così forte che va oltre l’indicazione, ma che pone il capo delle giunte locali al di sopra dei consiglieri, ha contribuito a mascherare con la personalizzazione della politica il crescente vuoto di politica e il crollo della partecipazione sia alla vita dei partiti che alle consultazioni elettorali.
Se si esclude il partito di Renzi, che non solo è favorevole, ma addirittura rivendica la primogenitura del progetto dell’elezione diretta del presidente del Consiglio – che ricalca quello renziano del “sindaco d’Italia” – tutto il centrosinistra appare orientato a contrastare questa riforma costituzionale. Tuttavia, almeno ora ci si aspetterebbe dai sostenitori, nel campo del centrosinistra, del bipolarismo ottenuto artificialmente attraverso espedienti istituzionali anziché per via politica, il riconoscimento del fatto che la strategia della polarizzazione politica ha finito per fare il gioco della destra, favorendola anche nel rilanciare uno dei suoi cavalli di battaglia, quello dell’uomo solo al comando, che tanti danni ha arrecato al nostro Paese nel secolo scorso.
Il dibattito sul premierato costringe a mostrare, se la si ha, quale strategia si intende adottare per rimotivare i cittadini alla partecipazione, per rivitalizzare i partiti politici, con regole certe, adeguate e applicate sulla democrazia interna estesa alla scelta delle candidature a ogni livello istituzionale, nonché sui loro bilanci. E dovrebbe rendere più chiaro dove conduce la via del presidenzialismo che con troppa leggerezza è stata già imboccata a livello locale. Un dibattito che interpella tutte le forze vive del Paese. Oltre ai partiti, la società civile, i corpi intermedi che non possono esimersi da una riflessione su quale sia il modello di democrazia per cui lavorano e non possono fare a meno di applicare innanzitutto al loro interno ciò che propongono per le istituzioni pubbliche.
C’è solo da sperare che il rischio di deriva presidenzialista, nel senso di eccessiva concentrazione di potere nelle mani di un solo soggetto istituzionale, che la riforma della Meloni contiene, sia assorbito dall’avanzamento progressivo dell’integrazione europea. Con un bilancio sempre più deciso a livello comunitario sulle questioni fondamentali – dall’economia, alla difesa al welfare – agli stati nazionali resterebbero in futuro meno competenze. In tal modo anche un premier eletto direttamente dal popolo troverebbe comunque nell’Europa quei contrappesi di cui la riforma costituzionale in discussione appare sprovvista. E ciò potrebbe trasformarsi in una eterogenesi dei fini per i quali è stata pensata dal governo questa riforma.
Una riforma rischiosa non solo per ciò che prevede (e per ciò che non prevede) ma anche inopportuna nei tempi di profondo cambiamento che stiamo vivendo, e di conflitti che si moltiplicano nei fronti aperti e che rischiano di aumentare di intensità. Il disordine globale in corso sta avendo e avrà pesanti ripercussioni sull’economia e sull’ordine sociale europei. Intervenire per ridurre il rischio geopolitico con politiche di dialogo e di pace costituisce la priorità numero uno dalla quale dipende in ultima analisi la salute della nostra democrazia. In questo senso l’insidia forse maggiore della riforma costituzionale del premierato è quello di divenire una sorta di pifferaio magico che attira dietro di sé l’intero sistema politico portandolo a confrontarsi su questioni sì importanti, ma non decisive e urgenti per l’avvenire del Paese. Un rischio che tutti hanno il compito di scongiurare, confrontandosi innanzitutto nello stabilire quali siano le priorità in questa delicata fase storica.
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