John F.Kennedy, sessanta anni da Dallas

Sessanta anni fa, venerdì 22 novembre 1963, il presidente americano John F. Kennedy veniva assassinato a Dallas. Quei colpi di fucile sparati da un edificio a ridosso della strada dove passava il corteo sconvolsero tutti. Chiunque abbia vissuto quel momento non ha dimenticato l’istante in cui apprese la notizia: fosse a scuola, al lavoro o semplicemente in giro per strada.

E questo non solo in America ma in ogni parte del mondo perché, più di qualunque altro leader, il giovane presidente della Nuova frontiera era il simbolo di una società lanciata verso il futuro, capace di lottare contro il razzismo e le disuguaglianze o di battersi per la pace e la convivenza dei popoli.

Dopo la crisi di Cuba dell’ottobre 1962, che aveva condotto il mondo sull’orlo del baratro, Stati Uniti ed Unione Sovietica parevano aver imboccato la via della distensione. La firma, nell’agosto 1963, del Trattato per porre fine agli esperimenti nucleari nell’atmosfera mostrava l’impegno delle due super potenze per approdare ad una pacifica coesistenza, pur nella diversità dei sistemi politici ed economici. Era l’auspicio di papa Giovanni XXIII che nell’aprile dello stesso anno aveva scritto l’enciclica Pacem in Terris, rivolta a credenti e non credenti, in nome del bene comune universale cui tutti sono chiamati a contribuire.

Questo era insomma il clima quando Kennedy intraprese il viaggio in Texas per gettare le basi della campagna elettorale per il suo secondo mandato. Le presidenziali del 1964, a differenza di quattro anni prima quando superò il repubblicano Richard Nixon per una manciata di voti – appena 100mila su cento milioni di votanti – sembravano prospettare un successo ben più ampio ed agevole.

Eppure non erano certo mancati i momenti difficili, sia in politica estera che interna: a Berlino i russi avevano costruito il muro che divideva la città ed entro le mura domestiche la segregazione razziale avvelenava la convivenza civile con intollerabili episodi di violenza. Alla baia dei Porci, aprile 1961, tutto era andato storto. L’invasione di Cuba ad opera di bande anticastriste era miseramente fallita. Però Kennedy si era assunto tutte le responsabilità del disastro, comparendo in prima serata alla televisione davanti a milioni di americani. E questo aveva enormemente giovato alla sua leadership perchè – allora come oggi – la gente comprende gli errori mentre mal sopporta chi scarica sempre le colpe sugli altri.

Tutto questo finì a Dallas sotto le pallottole di Lee H. Oswald, un ex marine con confuse simpatie marxiste. Sull’assassinio calò l’ombra di possibili complotti alimentati anche dal fatto che Oswald fu a sua volta ammazzato due giorni dopo da Jack Ruby, un faccendiere che disse di aver voluto vendicare il Presidente ucciso. La commissione diretta dal giudice della Corte suprema Earl Warren, incaricata di far luce sull’accaduto, concluse i propri lavori sostenendo la tesi del killer solitario. Anni dopo, ulteriori approfondimenti fecero ipotizzare che un complotto poteva anche esservi stato. Senza offrire però prove inoppugnabili in tal senso.

Sei decenni ci separano ormai dal giorno nel quale i destini di Oswald e di Kennedy si incrociarono. Difficile dire se, dal delitto più investigato del pianeta, possano scaturire nuovi elementi. Forse potrebbe uscire ancora qualcosa dagli archivi ma non è affatto detto e molto probabilmente continueremo per sempre a chiederci cosa realmente accadde a Dallas quel lontano venerdì di fine novembre.

Gli anni che sono trascorsi hanno in parte scolorito il mito kennedyano riportandolo a più giuste dimensioni. Resta però intatto, nell’immaginario di molti, il ricordo di una presidenza spezzata nel suo momento migliore. La scomparsa di Kennedy – come quella di leader assassinati come Aldo Moro o Itzhak Rabin – chiuse una stagione di grandi speranze. Anche per questo il presidente della Nuova frontiera mai cesserà di essere l’emblema di un’epoca forse irripetibile.

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