Taiwan, presidenza a Lai del partito indipendentista
A dispetto degli anatemi lanciati da Pechino, o forse proprio per questo, gli elettori di Taiwan come nuovo Presidente della repubblica scelgono William Lai, leader del Partito progressista democratico (Ppd). La formazione più marcatamente indipendentista. Con il 40 per cento dei suffragi, Lai ha superato i suoi concorrenti: Hou Yu-in del Kuomintang (Kmt) e Ko Wen-je del Partito popolare, fermi rispettivamente al 33 e al 26 per cento. Da notare che il turno unico – senza ballottaggio tra i due candidati giunti in testa (come avviene in Francia) – ha impedito al vincitore di ottenere la maggioranza assoluta dei votanti.
Al tempo stesso, però, onde evitare di concedere a Lai un potere eccessivo, quando si è trattato di deporre nelle urne la seconda scheda per il contemporaneo voto legislativo, gli elettori si sono ben guardati dall’offrire al suo partito, il Ppd, la maggioranza assoluta in Parlamento. In testa è così giunto il Kmt che conquista 52 dei 113 seggi dello Yuan legislativo (come viene denominato il Parlamento monocamerale di Taiwan), relegando in seconda posizione il Ppd che perde undici dei 62 seggi ottenuti nella tornata precedente. Per disporre di una maggioranza parlamentare in grado di approvare i provvedimenti di legge, il neo presidente dovrà dunque accordarsi con il Kuomintang, in una grande coalizione in salsa taiwanese, oppure cercare il sostegno del terzo arrivato, il Partito popolare di Ko che potrà ergersi ad ago della bilancia.
In buona sostanza, se gli elettori da un lato respingono qualsiasi interferenza di Pechino al punto da votare proprio per il candidato più detestato dall’ingombrante vicino, dall’altro non vogliono neanche tirare troppo la corda assegnandogli tutti i poteri col rischio di favorire inopinate, seppure improbabili, fughe in avanti verso una formale dichiarazione di indipendenza che porterebbe il Paese sull’orlo di un conflitto. Piuttosto che affidarsi ad un monocolore Ppd, meglio quindi un esecutivo di coalizione in grado di far da contrappeso.
E’ comunque ben noto a tutti che la Cina da sempre, mira a riportare sotto la propria sovranità quella che considera soltanto una provincia ribelle. Una separazione che dura ormai da 75 anni. Taiwan (all’epoca chiamata ancora col nome occidentalizzato di Formosa) nel 1949 divenne il rifugio delle forza nazionaliste di Chiang Kai-shek sconfitte dai comunisti di Mao Tze-tung prossimo a fondare, il 1° ottobre di quello stesso anno, la Repubblica popolare cinese. Negli anni Pechino ha spesso manifestato la volontà di annettere Taiwan, ma tutto rimaneva sempre nel vago. Con Xi si sta assistendo ad un cambio di passo.
Oggi la Cina ritiene necessaria una futura unificazione considerandola l’imprescindibile compimento della propria unità nazionale. Sembra di assistere al clima esistente negli anni precedenti la Prima guerra mondiale quando l’Italia aspirava a riportare sotto la propria sovranità Trento e Trieste, le due città irridente. E qui ovviamente terminano le analogie. Perchè giuliani e trentini aspiravano a ricongiungersi alla patria italiana, mentre i taiwanesi vedono come fumo negli occhi la prospettiva di finire sotto il giogo cinese.
A Taiwan nessuno si fa illusioni su quale sarebbe il destino se l’isola finisse in mano cinesi. Accadrebbe quanto già visto ad Hong Kong, la colonia inglese restituita alla Cina nel 1997 e in pochi anni finita sotto un ferreo autoritarismo, in barba alla promessa di autonomia politica ed economica in base al famoso slogan dei “due sistemi”. Alla fine di sistema ne è rimasto uno solo: quello in voga a Pechino.
Di certo Taiwan occupa un posto importante nello scacchiere mondiale. L’isola – 36mila kmq di superficie (un terzo in più della Sicilia) e 23 milioni di abitanti – è il principale produttore mondiale di semiconduttori. Nel suo sottosuolo sono infatti presenti vasti giacimenti di terre rare: minerali impiegati nelle energie rinnovabili, nell’aerospazio e nell’auto elettrica.
Anche per questo, e non solo per motivazioni esclusivamente patriottiche, la Cina vuole riportare Taiwan nella propria orbita. Un’unione da conseguirsi anche con la forza se necessario, come sarebbe forse il caso qualora l’isola proclamasse una formale indipendenza. Difficile comunque allo stato attuale immaginare un’invasione in grande stile. Potrebbe piuttosto verificarsi – su questo si concentrano gli analisti internazionali – un blocco commerciale o una serie di interferenze nei sistemi informatici.
Tra Ucraina, Gaza e mar Rosso di focolai aperti ce ne sono già abbastanza. Un nuovo fronte rischierebbe davvero di far scivolare il mondo verso l’abisso. Al di là di alcune schermaglie dialettiche, la Cina pare comunque soprattutto propensa a tutelare i propri flussi commerciali per cui, almeno nel breve periodo, non sembra rientrare nei suoi piani un diretto intervento contro l’isola. A volte però, a dispetto di qualsiasi logica razionale, può anche succedere che sulla cautela di chi evita le forzature, prevalga la temerarietà di chi accetta il rischio di un conflitto. Taiwan sembra essere un po’ la Danzica del XXI secolo: sarà bene che tutti se ne rendano conto, evitando di scherzare col fuoco.
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