Profumi del Novecento, fra Puccini e la musica vocale da camera statunitense
Grande successo di “Madama Butterfly” al Teatro Carlo Felice di Genova
di Alessandro Mormile
Il Carlo Felice di Genova è un teatro molto grande, ma per l’ultima della sei recite in cartellone di Madama Butterfly di Puccini, quella pomeridiana di domenica 28 gennaio, si è registrato un sold out da record. Per altro non è una novità che il teatro genovese, guidato dal sovrintendente Claudio Orazi e dalla illuminata direzione artistica di Pierangelo Conte, sia tornato a funzionare alla grande, con stagioni ricche di appuntamenti importanti, ben equilibrati fra scelte del grande repertorio e titoli di richiamo per chi è di palato più fine (dopo l’inaugurazione all’insegna di Britten, con un felice allestimento di A Midsummer Night’s Dream, a marzo è prevista l’andata in scena di Beatrice di Tenda di Bellini, preceduta, fra pochi giorni, da Idomeneo di Mozart).
Oltre all’opera, la programmazione offre anche cicli di interessante respiro culturale, come la rassegna Novecenti, quest’anno dedicata alla musica vocale da camera americana e inglese in tutte le sue declinazioni di repertorio, anche quello a noi meno noto, come il 900 statunitense. Infatti, alcune ore prima della andata in scena di Madama Butterfly, nel foyer del Teatro, Claudio Marino Moretti, direttore del Coro del Carlo Felice ma anche raffinato pianista, ha accompagnato con sensibilità il mezzosoprano Manuela Custer in una scelta di songs di Charles Ives, molti di essi composti su testo dello stesso compositore, evocanti atmosfere familiari (l’attenzione alla famiglia era un suo must) o sentimentalmente colorati di ariosa positività, talvolta attraversata di delicata mestizia. In “Sunrise”, sempre di Ives, la voce è accompagnata, oltre che dal piano, anche dal violino del bravo di Giovanni Battista Fabris. Il meditato percorso di questo recital propone anche pagine più sperimentali, come quelle di Morton Feldman (in “Only” alla voce sola è affidato il compito di intonare il bellissimo testo poetico di Rainer Maria Rilke) e John Cage. A dar anima ad ogni pagina provvede l’arte espressiva suprema di Manuel Custer, il suo volare con la voce sulle pieghe più intime della parola. È un canto, il suo, squisitamente evocativo oltre che sensibile allo stile di una musica della quale coglie con sottile riserbo quella nostalgia spesso connotata con incanto etereo o quella sorgiva ingenuità che è propria dei songs dedicati da Ives alle figlie. Certo, per far questo, bisogna essere artisti veri; Manuela Custer lo è perché riesce a calarsi (cosa non facile) nel sentire stilistico di questa musica in bilico fra immagini e ricordi di serenità familiare e malinconie soffuse, a farla vivere, nel gesto come nel canto, cogliendone con felice sintesi lo spirito in minimalismi sonori e delicati abbandoni.
Poche ore dopo il teatro ha riaperto le sue porte per la suddetta Madama Butterfly, andata in scena nella ripresa dell’allestimento che Alvis Hermanis firmò per il Teatro alla Scala, per il quale disegna anche le scene, mentre i costumi sono di Kristìne Jurjàne: un fluido succedersi di pannelli scorrevoli su strutture a più livelli che delimitano ambienti e fanno intravedere paesaggi nipponici da cartolina illustrata, immagini floreali, un giardino di alberi di ciliegi e peschi in fiore e tutto quanto evoca un Giappone oleograficamente raffinato e rituale. Ma nel secondo atto Butterfly è vestita in nero, come una donna di epoca vittoriana, e la sua casa è arredata secondo i modi della vita occidentale, come a voler accentuare l’idea di credersi una vera donna americana, convertita alla fede Cristiana, illudendosi di appartenere ad un mondo che non è suo e che solo Suzuki preserva nei suoi riti nipponici. Il rituale del finale, consumato non in privato, ma drammatizzato come fosse una tragedia greca, lascia perplessi, perché Butterfly ha ripudiato le sue tradizioni proprio in nome dell’agognato sogno d’amore americano per lei impossibile; è ormai sola con se stessa e nessuno piange per lei, tantomeno dovrebbero farlo le geishe, che invece qui la circondano e la aiutano a preparare il cerimoniale di morte prima che si recida la gola. Ciò premesso, lo spettacolo nella sostanza funziona ed appare limpido e chiaro.
È soprattutto la parte musicale e vocale a convincere e a costituire il maggior polo di attrattiva. La bacchetta di Fabio Luisi, alla testa di un’Orchestra del Teatro Carlo Felice in stato di grazia, si mostra da subito una delle carte vincenti di questa Butterfly genovese, con fraseggi orchestrali che non cedono ad uno scontato ed estenuato lirismo drammatico; il senso del teatro non viene perso di vista, anzi appare teso e terso, commisurato alla temperatura di un dramma vissuto senza che alcun languore estetizzante prenda il sopravvento, sostanziandosi piuttosto di quella scorrevolezza attenta ai particolari più intimi e toccanti del dramma, appunto con concreta sostanza teatrale. Una direzione molto profonda ed accurata, pronta ad offrire ai cantanti un sostegno orchestrale di levatura espressiva fuori dal comune, evidente in quelli che meglio la sanno cogliere e comprendere.
Inutile negare che il soprano armeno Lianna Haroutounian, affermata interprete di Butterfly ma oggi orientata verso parti di spessore drammatico più spinto (al Teatro San Carlo di Napoli sarà presto protagonista della Gioconda di Ponchielli), sia una Cio-Cio-San di tutto rispetto. Il fraseggio sembra ridotto all’essenziale, perché pochi sono i colori in “Un bel dì vedremo” e al canto di conversazione manca fantasia, soprattutto nel primo atto, eppure si mette in luce per la solidità del mezzo vocale, anche in un registro acuto sonoro e pieno.
Lo stesso Pinkerton di Fabio Sartori punta sulla robustezza indubbia di un mezzo vocale tenorile generoso, ma il rilievo scenico è piuttosto generico.
Più sottili, nella cura del fraseggio come nella presenza scenica, sono lo Sharpless saggio ed elegante di Vladimir Stoyanov e la Suzuki profondamente meditata nel gesto come nella dimensione umanamente raccolta di Manuela Custer, capaci entrambi di costruire personaggi autentici oltre che cantare assai bene.
Ben assortito il cast anche nelle parti di contorno, con l’ottimo zio Bonzo di Luciano Leoni, il Goro fresco e ben interpretato da Manuel Pierattelli, il Principe Yamadori di Paolo Orecchia, il Commissario imperiale di Claudio Ottino e la Kate Pinkerton Alena Sautier. Applausi finali interminabili e meritati.
Lascia un commento