Stati Uniti: Kamala Harris sfida aperta con un vicepresidente azzeccato

I vuoti di memoria, i molteplici lapsus, l’incedere sempre meno sicuro: da tempo si stavano accumulando i segnali che il presidente americano Joe Biden sarebbe stato obbligato a ritirarsi dalla corsa. E alla fine è andata proprio così. Concludere la presidenza è ovviamente alla sua portata, altro che dimissioni come con notevole sfrontatezza ha insinuato qualche seconda fila repubblicana. Biden avrebbe peraltro anche potuto battere Donald Trump alle presidenziali: sarebbe bastato valorizzare al meglio un bilancio economico e sociale di tutto rispetto, nonché una politica estera finalmente chiara nei suoi obiettivi di fondo. Cosa che non era successo né con Trump né con Obama. Il problema è che la sfida di novembre non è il punto di arrivo ma quello di partenza per un quadriennio alla guida degli Stati Uniti, la prima potenza mondiale. Un lungo impegno che Biden, come egli stesso ha dovuto riconoscere, difficilmente avrebbe potuto assolvere.

Sarà dunque Kamala Harris, la sua vice, a sfidare Trump. E c’è da credere che per quest’ultimo sarebbe stato assai meglio doversi confrontare con “Sleepy Joe” che non con una donna giovane ed energica come la Harris. Adesso, di colpo, il “vecchio” è lui, sebbene in politica non convenga fossilizzarsi troppo sull’anagrafe poiché si rischiano clamorose cantonate. E’ bene ricordare che Mussolini era un baldo cinquantenne e De Gasperi si avvicinava ai settanta: ma nessuno – tranne qualche nostalgico di estrema destra – potrebbe preferire il primo al secondo.

In ogni modo il Tycoon, che ama demolire gli avversari sfruttando i loro punti deboli, adesso si ritrova privo dell’argomento anagrafico. Che, anzi, gli può venir ritorto contro. Detto questo, è evidente come la gara della Harris sia tutta in salita. In cento giorni non solo deve imbastire un programma sufficientemente credibile ma, ancor di più, immedesimarsi in un ruolo nella quale, sino a pochi giorni fa, era impensabile dovesse trovarsi. Oltretutto Trump ha scelto un vice di tutto riguardo come James D. Vance, figlio della classe operaia che lo copre benissimo sul fronte di quei ceti popolari passati in quota repubblicana. Un regalo su cui i democratici avrebbero di che interrogarsi.

La Harris a sua volta dovrà scegliere con avvedutezza il proprio vice. Tutti sappiamo che, salvo accadimenti imprevisti al presidente, colui che gli sta incollato ad un passo è destinato a contare poco o nulla. Ma è altrettanto vero che una sapiente scelta agevola, e di molto, la corsa verso la Casa Bianca. John F. Kennedy puntò su Lyndon Johnson, democratico conservatore del sud, per compensare la sua provenienza nordista e la propria matrice progressista. Venti anni dopo Ronald Reagan, temendo di essere ancora ritenuto un attore, seppure avesse governato per otto anni la California, scelse un esponente dell’establishment come George Bush. Lo stesso Obama si affidò proprio a Biden, leader di lungo corso del Congresso, per rassicurare gli elettori moderati, perplessi su un possibile presidente afroamericano.

Decisione quindi molto delicata quella del vicepresidente. Da soppesare con estrema attenzione. Se è difficile fare un’esatta previsione sul nome del prescelto, due sono i sentieri da battere: un moderato per controbilanciare il progressismo della Harris oppure qualcuno prossimo al mondo dei “colletti blu”, un Vance in salsa democratica, capace di far pendere l’ago della bilancia in Stati come Michigan, Wisconsin o Pennsylvania, da sempre in bilico e da sempre decisivi per la Casa Bianca.

Se la scelta si rivelasse azzeccata, con un ticket convincente dinanzi all’elettorato, l’impresa di superare Trump potrebbe davvero realizzarsi. E questo soprattutto se il Tycoon alzasse di troppo i toni, provocando un rigetto tra gli elettori del centro moderato. Quelli che, ovunque, aprono la strada alla vittoria.

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