Voto Usa: considerazioni post elettorali
Netta vittoria di Donald Trump alle presidenziali 2024, con 312 delegati contro i 226 raccolti da Kamala Harris. Vittoria netta, ma non schiacciante e meno che mai storica. Per la Harris possiamo parlare di sconfitta e non certo di disfatta, poiché in passato altri Presidenti sono stati eletti con scarti ben superiori a quello attuale di Trump.
Basti pensare ai 520 delegati su 538 totali del repubblicano Richard Nixon nel 1972 contro il democratico di sinistra George Mc Govern oppure al record, tutt’ora imbattuto, di 525 grandi elettori conquistati da un altro presidente repubblicano, Ronald Reagan, nel 1984 triturando Walter Mondale capofila dei democratici. E se questi sono i dati sicuramente più rilevanti, meglio del Tycoon hanno comunque fatto, sempre in casa repubblicana: Dwight Eisenhower (1952 e 1956) e George Bush (1988). Mentre tra i democratici il massimo storico lo toccò Lyndon Johnson nel 1964 asfaltando Barry Goldwater, troppo sbilanciato sull’estrema destra.
Per Trump – questo è ovvio – un successo indiscusso. Ma nulla di eclatante. Un risultato frutto del pienone nei sette Stati in bilico – Wisconsin, Pennsylvania, Michigan, Nord Carolina, Georgia, Arizona e Nevada – passati tutti dalla sua parte, a dispetto di sondaggi che vedevano la Harris decisamente più competitiva. Il resto del Paese, ossia il Sud e l’Ovest, da decenni è di marca repubblicana, mentre le due coste, dell’Atlantico e del Pacifico, si confermano feudi democratici. Nel complesso emerge un quadro da tempo consolidato nelle sue linee generali e che certamente avvantaggia il Great Old party rispetto al partito dell’Asinello. Come è storicamente soprannominato quello democratico.
Trump vince anche nel voto popolare, cosa che non gli era riuscita nel 2016 contro Hillary Clinton. In genere consenso tra i cittadini e numero di grandi elettori vanno di pari passo. Può però verificarsi il caso di un candidato che arriva primo con pochi voti di vantaggio in larga parte degli Stati, assicurandosi tutti i corrispondenti delegati, e subendo poi qualche grave sconfitta in un altro ristretto numero di Stati. Questi avrà conquistato molti grandi elettori pur avendo ricevuto nel complesso meno suffragi popolari, a causa del forte distacco subito nei pochi Stati in cui è stato sconfitto. Col risultato che entrerà alla Casa Bianca pur avendo preso meno voti del rivale. Quello che capitò anche a George W. Bush nel 2000 contro Al Gore.
Mettendo da parte numeri e precedenti storici – utili però a meglio inquadrare l’esito dell’odierna contesa – è chiaro che nei due campi, repubblicano e democratico, regnino sentimenti opposti. Tra i primi c’è la soddisfazione di un successo a posteriori più agevole del previsto ma che non era affatto scontato. Considerato che nel Gop c’era chi aveva contestato la candidatura di Trump. I suoi processi in realtà non hanno affatto inciso sull’esito finale del voto. Le indagini dei giudici devono sicuramente fare il proprio corso, ma resta il fatto che in politica bisogna battere l’avversario sul terreno della politica e qui va detto che i democratici hanno commesso parecchi errori, sebbene la Harris non abbia affatto sfigurato, Soprattutto tenendo conto di una campagna elettorale partita molto in ritardo rispetto ai classici ritmi del sistema americano.
Tutto sarebbe stato più semplice se Joe Biden – pur con bilancio globalmente positivo alle spalle – già alla fine dello scorso anno avesse annunciato il proprio ritiro dalla corsa, considerando che ulteriori quattro anni alla Casa Bianca sarebbero stati probabilmente un peso non sostenibile. Si sarebbe così aperta la strada al collaudato meccanismo delle primarie e tra i democratici sarebbe emerso un candidato – la Harris stessa o qualcun altro – in grado di allestire meglio il proprio programma, imponendo al grande pubblico la propria visione dell’America.
Il cambio in corsa a luglio ha invece vanificato qualsiasi dibattito approfondito, cosicchè il progetto della Harris è rimasto alquanto oscuro. Alla fine si è parlato troppo di aborto e troppo poco di lavoro, scuola, sanità o ambiente. Biden nel 2020 aveva delineato le proprie opzioni sui grandi temi economici e sociali ed ha vinto. Questa volta i dem si sono limitati a suonare il tasto di “una donna che per la prima volta poteva approdare alla Casa Bianca”, senza troppo soffermarsi su quali contenuti dare poi alla presidenza una volta vinte le elezioni.
Di Trump sapevamo che puntava a tagliare le tasse, ad eliminare le regolamentazioni ambientali e a mettere dazi per proteggere le produzioni made in Usa. Della Harris si è capito invece poco e non basta accusare il proprio avversario di fascismo per essere credibili. Certo è paradossale che molti elettori delle classi popolari votino per un miliardario che riduce le imposte ai ceti più abbienti rendendo più iniqua la società nel suo insieme. Ma è proprio analizzando compiutamente questo paradosso – anziché perdersi nei meandri della pseudo cultura woke – che i democratici potranno risalire la china. Magari già a partire dalle elezioni di medio termine per il Congresso. Esattamente tra due anni.
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