Usa, Donald Trump atto secondo
Donald Trump atto secondo al debutto. Un atipico nuovo mandato poiché giunge quattro anni dopo la fuoriuscita del tycoon dalle stanze del potere. Casistica che nella storia americana trova solo riscontro con Grover Cleveland: presidente nel 1884, sconfitto da Benjamin Harrison alle successive elezioni del 1888 e tornato in sella nel 1892. Una situazione decisamente inconsueta perchè è raro che a chi esce dalla Casa Bianca venga concessa una nuova candidatura. Con lo spettro, per la sua parte politica, di una seconda sconfitta.
A Trump questa opportunità è stata data o – per meglio dire – se le è presa, facendo a pezzi il vecchio Partito repubblicano, ormai lontano anni luce dal moderatismo inteclassista che da sempre lo caratterizzava. Lo strapotere economico trumpiano ha avuto la meglio su tutti gli altri concorrenti alle primarie e nemmeno i numerosi processi ne hanno frenato l’ascesa. Per lui dunque un ritorno alla Casa Bianca – atteso da alcuni, temuto da altri – nel segno di una rivincita personale, ancora prima che politica.
Se Dwight Eisenhower, chiudendo la presidenza nel 1961, denunciò il pericolo rappresentato da un complesso militare-industriale che poteva influenzare la democrazia americana, oggi il rischio – oltre che da un’industria delle armi che persiste da allora – proviene dal conglomerato delle multinazionali hi-tech allineato come non mai dietro al potere politico. Scomodando Marx può notarsi come questa ristretta oligarchia economica, così tanto contigua alla sovrastruttura politica, sia in grado di interferirvi e condizionarne l’operato in modo pervasivo. Un ulteriore pericolo per le istituzioni democratiche. Il nostrano conflitto di interessi di berlusconiana memoria impallidisce dinanzi alla potenza di fuoco dei plutocrati stelle e strisce. Certo, si può pensare che questa contiguità alla fine scomodi lo stesso Trump, facendogli ricordare di essere stato eletto per fare il presidente degli Stati Uniti e non per essere lo sgabello di Musk. Ma il problema resta.
Detto questo, resta difficile immaginare la futura nuova presidenza poiché il tycoon è di una totale imprevedibilità. Sappiamo che punterà sull’industria del fossile sebbene anche dietro alle energie rinnovabili vi siano ormai ingenti interessi economici con cui fare i conti. E’ sicuro un taglio alle tasse che favorirà i ceti più abbienti. Si prospetta – dovrebbe essere il primo atto della sua presidenza – un’espulsione in massa degli immigrati irregolari che si sono resi responsabili di qualche reato. Un tema – la sicurezza, percepita o reale che sia – troppo trascurato dai democratici. Come in genere fa la sinistra, anche contrariando larga parte del suo stesso elettorato.
In politica estera c’è da credere che le “sparate” su Panama e Groenlandia restino tali. Parole irresponsabili gettate al vento col rischio però di giustificare l’invasione russa in Ucraina e di fornire un alibi alla Cina su Taiwan. Si profila un diverso rapporto con l’Europa e con la Nato. Gli Usa vogliono spendere meno per la difesa del vecchio continente. Hanno le loro ragioni e allora, una volta per sempre, facciamone una buona ragione per costruire – sarebbe ora – una comune difesa europea. Unica strada per contare di più sullo scacchiere mondiale. Se i dazi saranno il problema da affrontare, il disimpegno militare sarà l’opportunità per approdare ad un’Unione europea capace di difendersi da sola. Un dato positivo in una presidenza che sta prendendo il via tra tante incognite ed altrettante inquietudini.
Lascia un commento