Difesa europea: andare oltre il riarmo
Difesa comune europea: potremmo dire la scelta migliore nel momento peggiore. Il vecchio continente vive infatti il suo più difficile frangente dalla fine della Seconda guerra mondiale, trovandosi alle prese con il conflitto tra Russia ed Ucraina. Per di più, ad un contesto già drammatico di suo, si aggiunge il manifesto disimpegno di Washington dalla Nato e dallo scacchiere europeo.
Nulla di veramente inatteso però. Già prima di Donald Trump, sia Joe Biden che Barack Obama, avevano chiesto un più forte contributo europeo in ambito Nato, portando le spese militari di ciascun Paese al due per cento del Pil. Adesso semplicemente, questo discorso, nell’aria da anni, sta subendo una forte accelerazione. E peraltro non è ancora ben chiaro se il futuro sistema difensivo europeo continuerà ancora ad incardinarsi nella Nato – seppur con un’inevitabile diversa suddivisione dei pesi tra le due sponde dell’Atlantico – o se invece ci si stia incamminando verso uno sganciamento dagli Stati Uniti.
In ogni caso stiamo riprendendo un cammino interrotto nel lontano 1954 quando la Francia inopinatamente bocciò la Comunità europea di difesa (Ced) cui partecipavano Italia, Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo. I sei Paesi che tre anni dopo diedero vita alla Cee di cui l’attuale Unione è l’evoluzione storica. E bisogna dire che, in barba ai sovranisti d’ogni dove, quella dell’Unione è una vicenda di successo perchè, seppure l’integrazione sia faticosa, si è passati ad una comunità di ventisette membri e almeno altri dieci Stati bussano alla sua porta.
Per far tornare in agenda il tema della difesa ci voleva un’amministrazione americana ostile come non mai al vecchio continente. Un’avversione talmente marcata da far non solo di ricompattare i ventisette ma capace persino di riavvicinare Londra e Bruxelles. In freddo dopo la Brexit. D’altronde un’efficace protezione europea non può prescindere dalla Gran Bretagna, al di là della sua appartenenza all’Ue, essendo una potenza nucleare assieme alla Francia che, peraltro, pare intenzionata a condividere la forza di dissuasione con il resto dell’Europa.
Se si parla di difesa comune bisogna però intendersi, poiché il concetto può venir declinato in tante maniere. Il piano della Commissione europea prevede un finanziamento pluriennale di 800 miliardi e lo scorporo delle spese militari dal debito pubblico dei singoli Stati. Un passo importante ma non sufficiente. Il rischio è che ogni Stato incrementi per conto proprio la spesa militare e sia costretto poi a ridurre i finanziamenti alla sanità pubblica e via dicendo. Qualcosa di inaccettabile: socialmente ed eticamente. Una trappola da scongiurare.
La via di uscita più sensata è di centralizzare la spesa a livello europeo, poiché solo una gestione coordinata creerà le economie di scala indispensabili per evitare tagli al welfare. E questa è una prima condizione. Ma poi serve un passo ulteriore. Si tratta cioè di impiegare risorse non soltanto tratte dai bilanci dei singoli Stati, che appesentirebbero i rispettivi debiti pubblici nazionali, ma disporre di un fondo sovranazionale proveniente dal bilancio comunitario. Bilancio che purtroppo oggi si colloca attorno all’uno per cento del Pil dell’Unione: non in grado di coprire lo sforzo richiesto e che va dunque innalzato all’otto-dieci per cento. Percentuale che sarebbe comunque sempre meno della metà del bilancio federale statunitense.
Questo per quanto riguarda la cornice finanziaria. Entrando invece nel merito della spesa è insensato continuare con l’attuale dispersione di mezzi, strumenti ed equipaggiamenti. Si impone in tempi brevi una standardizzazione con pochi modelli per ciascun tipo di armamento. Un percorso irto di ostacoli, scontrandosi con l’interesse dei singoli Stati volti a privilegiare le proprie industrie. Eppure la strada è quella di un’armonizzazione tra i vari produttori, oggi in concorrenza tra loro, e chiamati, come avviene nel settore automotive, a creare delle sinergie. Altrettanto decisivo sarà di acquistare sul mercato europeo quello che possiamo produrre in casa, altrimenti andremmo ad ingrassare le imprese americane.
Ci vorrà tempo per tutto questo, ma soprattutto una chiara volontà politica. In caso contrario la difesa comune non sarà altro che il paravento dietro cui si nasconde la corsa al riarmo tra campioni nazionali mal cooordinati tra loro. Gara che farebbe guadagnare soltanto enormi profitti alla lobby delle armi, senza realizzare un modello integrato di difesa.
A monte di tutto va posta però una questione decisiva. Non possiamo rassegnarci a vivere in un clima di perenne tensione internazionale. Va perseguita, in tutti i modi, a livello globale una riduzione degli armamenti, imboccando la via della distensione e della coesistenza pacifica. Unico traguardo capace di garantire una vera sicurezza per tutti.
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