Dai dazi una spinta all’integrazione europea
Dazi sì, dazi no! Dazi forse; rinviati di novanta giorni. Con il presidente americano Donald Trump siamo alla doccia scozzese, mentre gli indici di borsa fibrillano come non mai. Impossibile fare qualsiasi previsione. Non è chiaro cosa accadrà nei prossimi giorni, figurarsi tra tre mesi, alla scadenza dei fatidici novanta giorni. E peraltro se le tariffe sono state sospese per l’Europa non lo sono per la Cina. A Pechino gli Stati Uniti hanno comminato dazi al 145 per cento. Il che ha condotto ad un’immediata ritorsione cinese che ha elevato il balzello contro Washington al 125. Di certo si capisce più nulla, o meglio si capisce che alla guida degli Stati Uniti, la prima potenza mondiale, c’è un presidente del tutto imprevedibile e totalmente inaffidabile.
Dimentichiamo dunque le tempeste di questi giorni e quelle che forse verranno nei prossimi, tanto è inutile arrischiare pronostici. Meglio piuttosto riflettere su quale strategia potrebbe consentire all’Europa di ridurre i danni economici provocati da queste barriere qualora entrino pienamente in vigore.
Evidente innanzi tutto che la risposta ai dazi, lieve o severa che sia, non potrà che avvenire a livello europeo. Si tratta di un preciso vincolo sancito dai trattati Ue che assegnano il commercio internazionale alle autorità comunitarie, sottraendolo alla competenza dei singoli Stati. L’Unione deve parlare al mondo con una voce sola. Impensabile la strada proposta da Matteo Salvini – ministro delle Infrastrutture sempre prodigo ad intervenire in materie non sue – di puntare su intese bilaterali, sperando in un trattamento di favore della Casa Bianca. Tutte da scoprire poi modalità e tempistiche con cui l’Europa giocherà questa complessa partita con gli Stati Uniti. Una partita che va arricchita potenziando nuovi mercati: America Latina, Asia ed Africa in modo da non sottostare soltanto ai volubili umori di Washington.
Da più parti si pensa – lo sostiene anche la nostra premier Giorgia Meloni – che per recuperare gli spazi di competitività messi a repentaglio dalle barriere tariffarie, occorra quanto prima eliminare i cosiddetti “dazi autoimposti”. Nel mirino finisce subito il Green Deal, bollato come un inutile e fastidioso ostacolo per lo sviluppo. Un generatore di costi insostenibili. La verità è che qui di insostenibile c’è soltanto il riscaldamento globale che va frenato nel modo più risoluto, rappresentando la più grave emergenza del nostro tempo Frutto di costi economici aggiuntivi – volendo tralasciare quelli umani – di gran lunga superiori a quelli necessari per correggere la rotta.
Che poi si debba cercare di procedere verso la decarbonizzazione con un calendario meno rigido può anche aver senso. Proseguire la ricerca su motori diesel meno inquinanti non contraddice l’obiettivo dell’auto elettrica. Alla stessa stregua non vanno smantellate le norme che disciplinano tutto quanto ruota attorno all’hi-tech e all’intelligenza artificiale. Si tratta di regole a tutela delle persone contro lo strapotere di giganti tecnologici che vorrebbero avere campo libero su tutto.
In realtà per accrescere la nostra competitività non serve smantellare il Green Deal o piegarsi ai potentati hi-tech, bensì occorre accelerare l’integrazione europea. La più proficua risposta alle barriere esterne, costituite dai dazi, è quella di eliminare le barriere interne. Bisogna giungere in tempi rapidi ad un sistema fiscale armonizzato dove sia impedito lo scandaloso dumping di alcuni Paesi Ue con tassazioni irrisorie. Una fiscalità armonizzata sarebbe un bel vantaggio per le imprese oggi costrette a districarsi tra regole tributarie molto diverse tra loro. Un recupero di competitività garantito.
E poi l’allineamento del fisco rappresenta il tassello decisivo per approdare ad un bilancio sovranazionale di entità adeguata allo svolgimento di una politica economica comune. Oggi esso vale l’uno per cento del Pil complessivo dell’Unione (18.500 miliardi di euro): un aumento al cinque, ossia a 900 miliardi, deve essere l’obiettivo da conseguire entro la fine di questa legislatura. Gradualità dunque, ma anche nessun ulteriore indugio verso una maggior integrazione tra gli Stati Ue. A più di vent’anni dalla nascita dell’euro è il momento per questo nuovo passo in avanti. Anche perché leva fiscale ed idoneo bilancio comunitario sono i concreti e credibili presupposti per quella comune difesa di cui tanto si parla in questi giorni. Da realizzarsi non certo con una scomposta corsa agli armamenti a livello nazionale ma in una logica integrata su scala europea.
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