Evitare una manovra che prepari la depressione

Che il conto di questa grande crisi finanziaria lo dovessero pagare i ceti lavoratori lo si era capito già da un pezzo. Il processo di impoverimento dei ceti medi in Occidente procedeva da anni, ben prima dello scoppio ufficiale della crisi nel 2008, senza destare l’attenzione e la massima allerta che avrebbe meritato questo fenomeno. Le classi dirigenti hanno svenduto in pochi anni, in due o tre decenni, il primato industriale, scientifico e tecnologico accumulato dall’Occidente nell’epoca moderna sul resto del mondo, ma soprattutto il suo primato di sviluppo sociale, che pur fra contraddizioni e profonde disuguaglianze, ha consentito elevati standard di vita di massa. E tutto ciò solo in cambio di elevatissimi profitti per la finanza speculativa, sempre meno disposta a compromessi con le “regole” e con la democrazia. Lo standard mondiale che si sta imponendo in questo XXI secolo è così divenuto quello “asiatico”: pochi diritti, retribuzioni tendenti al minimo vitale, carichi di lavoro estenuanti, democrazia come optional, assenza di risorse per lo stato sociale compensata da enormi spese per rafforzare gli apparati repressivi.

Per questo non ci si può stupire della tempesta finanziaria di questa estate, che è giunta ad investire il debito sovrano del nostro Paese ed a far tremare le borse occidentali. Gli speculatori prendono ora di mira l’Occidente perché, al di là delle motivazioni contingenti, vogliono che si adegui in prospettiva allo standard asiatico. E per le classi medie questa suona come una sentenza capitale, che rende possibili rivolgimenti molto seri sul piano sociale e politico, se le loro istanze dovessero essere ulteriormente calpestate.

Senza un risveglio della politica, senza la capacità di guardare all’interesse generale, la gestione della crisi rimane affidata alla difesa degli interessi degli investitori e degli speculatori, che controllano i grandi mezzi di informazione e decidono quali scuole di pensiero rendere prevalenti, a cui poco importano gli ulteriori sconquassi economici e sociali richiesti per affermare un cinico primato assoluto del profitto, indifferente a qualsivoglia istanza etica.

Ma al punto in cui siamo giunti probabilmente alla gran parte dei cittadini poco interessano le discussioni filosofiche tendenti a stabilire se il capitalismo sia riformabile oppure se, pur con le sue crisi cicliche (che sinora nella storia sono sempre state il preludio di grandi conflitti) sia da considerarsi pur sempre il miglior sistema possibile; se la causa dell’attuale dissesto dei conti pubblici sia da ricercarsi nei costi della democrazia (un lusso?), piuttosto che negli eccessi delle attività speculative.

Ciò che più interessa ai lavoratori, alle famiglie, alle imprese è quale prezzo dovranno pagare ancora per superare le difficoltà attuali, quando finirà quella specie di sortilegio che, a differenza di un passato che ancora molti ricordano, trasforma la sovrabbondante ricchezza prodotta in una catena interminabile di debiti da ripianare. Detto in altro modo, mai come oggi si ha l’evidenza empirica di cosa significhi nella vita delle persone il primato del profitto nell’economia, al posto del primato dell’uomo.

Se la politica, dall’ambito locale alle sedi internazionali, non saprà dare una risposta a questa questione fondamentale, quella che forse è la più grande crisi della storia del capitalismo continuerà a deprimere le economie, destabilizzare le società e le relazioni internazionali, facendo correre a tutti grandi rischi di natura non solo economica.

Agire con saggezza sui costi delle amministrazioni e della politica

Purtroppo non è facile oggi in Italia far sentire la voce dei ceti lavoratori, dopo venti anni nei quali si sono assestati dei colpi durissimi alla rappresentanza, creando un sistema istituzionale di tipo plebiscitario, fondato sulla sola scelta del capo, dal sindaco al presidente del consiglio. Eppure è l’unica via per dare vigore alle strategie di contrasto alla crisi. Ed è un compito a cui realtà associative e popolari, come le Acli, non possono sottrarsi. Nel Paese si avverte una grande necessità di distinguere fra le riforme “strutturali” che mirano al futuro, e quelle che invece costituiscono un ulteriore regalo ai responsabili di questa crisi e che pertanto producono effetti peggiorativi.

Esiste sicuramente un problema di ridimensionamento della spesa pubblica che dipende dal nuovo contesto internazionale. Nel mondo altre economie crescono ed i paesi ricchi, fra cui l’Italia, non possono più permettersi di vivere al di sopra delle loro possibilità. Esiste un problema di razionalizzazione degli apparati dell’amministrazione e delle istituzioni pubbliche. Si tratta di un problema che non si può pensare di risolvere con delle semplificazioni bizzarre come l’abolizione tout court delle province, che fa seguito a quell’isterica campagna di opinione contro le – irrisorie dal punto di vista finanziario – comunità montane.

Nuove province e authorities: costose concessioni ideologiche

Oggi sulle finanze pubbliche pesano piuttosto le conseguenze dell’irresponsabilità con cui nella seconda repubblica sono state accresciute e moltiplicate le istituzioni pubbliche per motivi prettamente ideologici o/e clientelari. É certamente il caso della proliferazione dissennata del numero delle province. Bisognerebbe anche chiedersi quale rapporto esista tra la reintroduzione dei collegi uninominali maggioritari, dal 1994 al 2006, e le istanze di nuove province. Come documentano gli atti parlamentari, mai come in quel periodo vi fu un aumento delle proposte di nuove province da parte dei parlamentari eletti in collegi non (ancora) capoluogo di provincia.

Che sia poi l’Italia, patria dei comuni, nella quale si è forgiata l’idea stessa di città secondo un modello invidiato e copiato in tutto il mondo, a fare dei comuni, dei piccoli comuni, una mera questione contabile, è semplicemente avvilente. I piccoli comuni dimostrano mediamente molta più oculatezza nella gestione delle risorse delle grandi città, sono aiutati spesso a consorziarsi per ridurre le spese di gestione proprio dalle province e soprattutto senza i piccoli comuni non ci sarebbe più quel presidio del territorio che, nonostante tutto, fa di ogni angolo d’Italia un luogo ricco di tradizione e di identità, turisticamente appetibile.

E’ semplicemente ridicolo sostenere di abolire i piccoli comuni, che hanno sindaci che talvolta si mettono pure a spalare la neve “a gratis” e consiglieri che non percepiscono indennità, per ridurre i costi della politica. Al pari delle comunità montane i piccoli comuni sono finiti nel mirino a causa del loro minor potere contrattuale rispetto alle grandi città, con metropoli che talvolta ambiscono a fare da contraltare alle regioni a cui appartengono, e quasi si concepiscono come città-stato. Mentre un silenzio che pochi osano spezzare, avvolge uno sbalorditivo lievitamento dei costi delle regioni sull’onda di una moda che di federalistico ha ben poco (non essendoci alcuna entità da unire, da federare, ma solo da dividere per tornare alla situazione pre-unitaria) e che invece tanto assomiglia alla moltiplicazione per venti del centralismo statale.

A tutto ciò poi bisogna aggiungere la destrutturazione dei poteri dei ministeri con il pullulare delle diverse authorities, costosissime e il più delle volte, fatte le debite eccezioni, realizzate non per una effettiva necessità ma in ossequio all’ideologia imperante: lo stato non deve più perseguire l’interesse generale ma, ritirandosi da settori strategici ed oltremodo redditizi come l’energia, le telecomunicazioni, le reti dei trasporti, le poste, ecc., porsi semplicemente come “arbitro”, ovvero come controllore discreto ed attento a non disturbare i giochi di pochi grandi operatori che in chiaro regime di oligopolio (come assicurazioni, telefonia, pedaggi autostradali) fanno finta di farsi concorrenza.

In gioco c’è l’unità del Paese

Che i costi della pubblica amministrazione e della politica rappresentino un aspetto importante da toccare sulla via del risanamento finanziario è fuori di dubbio. Ma bisogna mettere mano a questi interventi avendo una strategia, altrimenti si finisce per scherzare con il fuoco. Spiccano almeno tre rischi maggiori che si corrono in questo settore.

Il primo è che i tagli siano concentrati sugli enti pubblici più utili e più vicini al territorio, ma con minore potere contrattuale.

Il secondo rischio è quello che in nome di un insensato “federalismo”, anziché di una sana sussidiarietà improntata comunque e sempre alla solidarietà, lo stato si comporti da matrigna verso gli enti locali, tagliando drasticamente i trasferimenti, ma senza nel contempo ridurre il proprio fabbisogno in misura uguale alle risorse non più erogate sul territorio, cosicché i cittadini si ritrovano a dover sopportare una pressione fiscale aggiuntiva per finanziare il funzionamento degli enti locali.

Ma il terzo e più grave rischio è che dietro una frettolosa e maldestra riorganizzazione degli enti locali fatta per motivi contabili, si celino inconfessabili progetti di disgregazione del Paese. Il coro dei proponenti l’abolizione delle province e l’istituzione di poche macro-regioni riflette un preciso disegno di frantumazione degli stati che con appena qualche altra mossa in avanti, rischia di raggiungere un punto di non ritorno. In questo campo occorre dunque agire con massimo equilibrio e prudenza. Le province sono troppe? Certo che sì, ma vanno ridotte non eliminate, così come qualche ritocco ai territori ed al numero delle regioni non va escluso in via di principio. Ma le grandi regioni, del Nord soprattutto, il giorno in cui non avessero un altro significativo livello istituzionale che le controbilanci sul territorio, si avvierebbero a diventare degli staterelli, tante piccole Slovenie o Macedonie, al posto di una grande nazione. Se poi a questo dovessimo aggiungere l’avvio delle macro-regioni, con un riconoscimento postumo alle tesi del prof. Miglio, e delle regioni trans-frontaliere, così care a certi poteri forti e per le quali tanto si sono prodigati presidenti di regione come Illy o la Bresso, allora l’unità d’Italia sarebbe ben servita sul piatto dell’on. Bossi che, infatti, intravede più vicino il traguardo (e per noi lo scempio) della secessione.

Una manovra propedeutica alla depressione anziché alla ripresa

Non è facile per nessuno stare oggi al timone degli stati occidentali che galleggiano sulle acque in piena burrasca della speculazione finanziaria internazionale e di un mercato globale da essi creato ma sempre più improntato ai dettami dei Paesi emergenti. Ma non lo è in particolare per un governo come quello italiano che ha sinora sottovalutato i rischi di contagio a cui è esposto il nostro Paese per effetto dei consistenti intrecci finanziari che lo legano agli altri grandi Paesi comunitari ed alla finanza anglo-americana.

Per questo il governo, e con esso le principali forze politiche di maggioranza e di opposizione, una volta messi con le spalle al muro da un attacco speculativo – puntuale come sempre – al nostro debito sovrano, si sono dovuti piegare ai diktat delle neutralissime ed indipendenti (come tutti sanno) agenzie di rating, degli organismi finanziari comunitari ed internazionali, del governo tedesco, ogni giorno più insofferente verso un’Europa ed una moneta unica che non siano disposte a rispecchiare le sole sue convenienze.

Da questa scelta, che oggi appare senza alternative, ma di cui in un futuro non lontano potremmo amaramente pentirci, nasce questo surreale dibattito estivo concretizzato nella manovra finanziaria che il parlamento dovrà approvare per placare momentaneamente l’avidità dei cosiddetti “mercati”, di cui le borse rappresentano solo una piccola appendice visibile e regolata, rispetto al mondo non regolamentato, over the counter, degli hedge fund, dei derivati, dei cds a cui nessuno sta pensando seriamente di chiedere conto dei disastri che provocano e della ricchezza che sottraggono all’economia reale, costituita da nazioni, imprese, lavoratori e famiglie.

Naturalmente non si può negare il fatto che il Paese necessiti di riforme “strutturali” che alleggeriscano i costi degli apparati pubblici e della politica e ne aumentino l’efficienza, che valorizzino il lavoro, incoraggiando la libertà d’impresa, dei giovani soprattutto, anziché scoraggiandola in mille modi. Queste sono le riforme urgenti ed inderogabili, che però vanno nettamente distinte dalle pseudo-riforme, quelle che piacciono tanto alla grande finanza e che avrebbero l’effetto di aggravare ulteriormente la condizione del Paese, così come in effetti è capitato ogni volta che questi consigli sono stati adottati in Asia, Africa e Sud America (l’Argentina ha avviato una poderosa crescita economica solo dopo aver conosciuto il default ed aver gentilmente declinato l’offerta di tali ricette).

Tra queste ultime figurano tutte quelle misure che avrebbero l’effetto di strangolare l’economia anziché di favorire la ripresa. Nel dibattito sulla manovra finanziaria anticrisi tutta l’attenzione è proiettata alla soddisfazione degli speculatori che necessitano di essere rassicurati sul fatto che l’enorme quantità di titoli tossici, non coperti, che hanno immesso nei mercati e che ora sono parte degli “attivi” di grandi istituti di credito e delle stesse banche centrali, dovrà essere digerita dall’economia reale, ma trova poco spazio il tema, altrettanto importante, della sostenibilità economica e sociale delle misure che si intendono adottare, più o meno nell’esercizio della nostra sovranità nazionale. Una ulteriore stretta sui servizi sociali, sulle pensioni insieme ad un aumento della pressione fiscale che ha già superato ogni limite, sarà difficilmente sopportatile dalle famiglie e dai ceti lavoratori, è destinata ad essere scaricata sui ceti più deboli e brucia sul nascere le prospettive di ripresa economica. Ulteriori privatizzazioni che significhino ancora la svendita, ai soliti noti, delle residue partecipazioni pubbliche più redditizie sortiranno l’unico effetto duraturo di privare lo stato e gli enti locali di importanti voci di entrata, creando nuovi costi come quelli per l’affitto delle sedi svendute, rendendo necessari a breve altri tagli e nuovi aumenti delle tasse.

Che dire poi dei meccanismi generatori del debito pubblico? Oltre alla lotta agli spechi, alla corruzione, all’evasione fiscale, esiste anche il tema della privatizzazione della moneta che, presentato negli anni Ottanta in Italia come il non plus ultra della modernità, si sta invece rivelando un meccanismo che alla lunga genera un debito che non è sostenibile dall’economia reale. Il conferimento ai soli privati della possibilità di creare moneta costringe lo stato a pagare degli interessi all’origine, che sarebbero onerosi anche per un’amministrazione in perfetto equilibrio di bilancio.

In questa fase l’impegno prioritario delle forze popolari e di ispirazione cristiana, che vogliano tradurre nei fatti quell’agenda di speranza per l’Italia, delineata nell’ultima Settimana sociale, non può che essere quello per fare in modo che sull’onda dell’urgenza non si compiano degli errori madornali capaci non di attutire la crisi ma di gettare le premesse, che ci sono tutte nella proposta presentata dal governo, per l’entrata in una durissima depressione ed in una fase di grande instabilità economica e sociale.

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