Una chance per la politica
Nel chiacchiericcio politicante quotidiano sono poche le occasioni per alzare lo sguardo rispetto ad una prospettiva limitata all’esternazione o allo scandalo del momento, ed è abbastanza facile constatare come , al netto delle urgenze che pure rientrano nell’agenda politica, vi sia una difficoltà sostanziale della politica oggi di dialogare con quei saperi filosofici e storici che sono alla base dell’opera di costruzione ed amministrazione del diritto in cui si esprime l’essenza stessa dell’azione politica.
Una provocazione in questo senso è contenuta nel discorso che Benedetto XVI ha svolto il 22 settembre scorso davanti al Parlamento tedesco riunito nella storica sede del Reichstag di Berlino, nel corso della quale, come spesso gli capita quando visita la sua madrepatria ( ed è ormai la terza volta dalla sua elezione sei anni fa) ha sviluppato con lo stile del professore assai più che del leader religioso, alcune considerazioni sul rapporto fra fede e politica che vanno ben oltre le miserie clericali ed anticlericali che vengono messe permanentemente in cartellone da un teatrino della politica privo di idee forti. Naturalmente molte delle suggestioni del Pontefice (anzi del professor Ratzinger) presentano sfumature comprensibili solo in un’ottica tedesca, come la rivendicazione (peraltro nient’ affatto scontata in ambito cattolico fino a qualche tempo fa) dello “ Stato liberale di diritto” (Rechtsstaat) contrapposto non solo alla nostalgia dello Stato confessionale, ma anche alle ricorrenti tentazioni di uno Stato in cui la subordinazione alla legge sia sostituita dalla subordinazione ad un’imprecisa “volontà popolare” che si esprime attraverso un capo carismatico ed assoluto, dando vita ad uno “Stato popolare” ( Volksstaat) che non a caso fu una delle parole d’ordine del movimento nazionalsocialista: “Ein Volk, ein Reich, ein Fuhrer”, per l’appunto.
E’ proprio dalla negazione di questo concetto di Stato totalitario che prende le mosse il Papa per ricordare alcuni elementi essenziali: ossia che la motivazione ultima del lavoro del politico (dunque la politica è un “lavoro”, non un ritrovo per sfaccendati secondo quanto invece afferma la vulgata corrente) “non deve essere il successo e tanto meno il profitto materiale. La politica deve essere un impegno per la giustizia e creare così le condizioni di fondo per la pace” . Ovviamente un politico sicuro della bontà delle sue idee opererà perché esse abbiano successo, ma “il successo è subordinato al criterio della giustizia, alla volontà di attuare il diritto e all’intelligenza del diritto. Il successo può essere anche una seduzione e così può aprire la strada alla contraffazione del diritto, alla distruzione della giustizia”. Si colloca qui la famosa citazione dalla “Città di Dio” di sant’Agostino per cui senza la giustizia lo Stato non è che una banda di criminali (e il giurista e martire cristiano Tommaso Moro nella sua “Utopia” avrebbe parlato degli Stati del suo tempo come di “congiure dei ricchi per depredare i poveri” – un po’ il “comitato d’affari della borghesia”….).
Ma soprattutto si colloca qui la rivendicazione da parte del Pontefice dell’attualità del concetto di “diritto naturale” come base per la ricerca di ciò che è giusto, visto che non basta la vigenza di un determinato diritto per definirlo giusto in sé : ed infatti Benedetto XVI a tale proposito cita in positivo l’esperienza dei resistenti al nazismo e ad altri totalitarismi, che si batterono contro un ordinamento giuridico ingiusto per edificarne uno diverso. In questo modo non solo il Papa ancora evidentemente in via definitiva il pensiero sociale cristiano alla democrazia rappresentativa, ma va oltre affermando che il principio maggioritario, pur importante, non esaurisce in sé la ricerca della giustizia, che ogni essere umano deve cercare in sé perché essa si manifesta nella coscienza di ognuno perchè è inscritta nella natura umana.
Ovviamente la critica qui si appunta su Hans Kelsen, il fondatore di quella scuola del positivismo giuridico che, se rappresenta “una parte grandiosa della conoscenza umana e della capacità umana, alla quale non dobbiamo assolutamente rinunciare”, nello stesso tempo si percepisce, almeno nell’ottica del Papa, come una forma di autoriduzione della stessa ragione umana in un ambito ristretto che impedisce alla complessità del mondo di entrare nelle stanze chiuse della politica che viene ridotta a procedura.
Questo è solo un ben povero compendio di un discorso che è parte di un’architettura di pensiero complessa, e va anche detto che la questione del diritto naturale ritorna nel pensiero ratzingeriano come una sorta di “filo rosso” per la discussione con le culture secolari. Ad esempio, nel famoso dibattito svoltosi nel gennaio del 2004 a Monaco di Baviera fra l’allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e Jurgen Habermas ( sempre questi professori tedeschi….), Ratzinger parlò del diritto naturale come di una figura argomentativa utilizzata dalla Chiesa cattolica per “richiamare alla ragione comune nel dialogo con le società laiche e con le altre comunità di fede”, che però era ormai divenuta uno “strumento inefficace”, messa in crisi dalla teoria evoluzionista che avrebbe smontato l’idea tradizionale per cui “natura e ragione si compenetrano”. Di tutta l’impalcatura del diritto naturale sarebbero rimasti ormai i diritti umani, di cui il Cardinale chiedeva che ricercassero i fondamenti per una loro argomentazione razionale.
Proprio per questo, del resto, per diretto impulso del nuovo Papa , la Commissione teologica internazionale (CTI) ha lavorato alacremente su questo tema producendo nel 2009 un denso volumetto dal titolo “Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale” , che rivela fin dall’inizio il mutamento della prospettiva: il diritto naturale e l’etica che esso fonda non sono elementi dati una volta per tutte ma il frutto di una ricerca dialogica. Il documento è chiarissimo su questo punto al paragrafo 90: “Il diritto naturale non è mai una misura fissata una volta per tutte. E’ il risultato di una valutazione delle situazioni mutevoli in cui vivono gli uomini. Enuncia il giudizio della ragione pratica che stima ciò che è giusto. Il diritto naturale, espressione giuridica della legge naturale nell’ordine politico, appare così come la misura delle giuste relazioni tra i membri della comunità”. Si può quindi dire, alla luce della netta distinzione fra l’ordine sovrannaturale e quello temporale in politica che il documento più avanti afferma ( e anche in riferimento alla “Caritas in veritate” dove Benedetto XVI richiede una ragione purificata dalla fede ed una religione purificata dalla ragione) che il percorso dell’etica universale nasce dal dialogo, dalla ricerca, dalla disponibilità all’ascolto reciproco che non metta fra parentesi ma accetti il rischio concreto della differenza, e magari anche del conflitto, come strada possibile per una sintesi superiore.
Ci si chiederà se tutto ciò abbia a che vedere con le grandi problematiche della politica odierna. Eccome, e basti pensare semplicemente all’esperienza italiana: non è nella politica italiana, infatti, che da anni si teorizza apertamente la superiorità di una presunta volontà popolare al diritto positivo, ivi compresa la fonte giuridica suprema, la Costituzione? Non è stato forse un importante uomo politico italiano a contrapporre al “senso dello Stato” un presunto “senso dei cittadini”, intendendo se stesso come interprete ed oracolo della “volontà generale”? La “seduzione del successo” (ed il successo della seduzione …) non sono forse oggetto di dibattito pubblico, rilanciato dalle accorate parole del cardinale Bagnasco sulla questione morale che non è solo affare di camere da letto ma più in generale di corruzione dello spirito pubblico alimentata dall’alto con l’esempio e la prassi, ma spesso con teorie più o meno oblique.
Per questo, il riprendere la parola dell’associazionismo cattolico nelle questioni sociali e politiche, laddove si tratti di un convergere spontaneo e non del riproporsi di ricette che gli stessi massimi dirigenti associativi sanno bene (e dicono) essere antistoriche, non potrà non tener conto di quanto, come rilevano i più acuti osservatori del costume e della politica nazionali, il berlusconismo una volta di più non sia, crocianamente, una malattia dello spirito che misteriosamente viene e se ne va, come il morbillo, ma, gobettianamente, l’ennesima autobiografia di una Nazione che ha molti meriti e virtù ma fatica a trovare un assetto stabile per il proprio convivere civile, e coltiva sempre l’aspettativa miracolistica dell’ uomo forte. Il fatto è che nessun mondo vitale, nemmeno quello cattolico, è rimasto immune da tale infezione, e proprio per questo il passaggio che stiamo attraversando non chiede nuovi partiti, ma nuovi stili di vita , nuovi costumi, nuove idee.
E su questo può esercitarsi anche una convergenza delle forze progressiste, purché ci sia il coraggio non solo di riconoscere che dall’interlocuzione col fatto religioso –non con le anticamere clericali, anche se molti, anche a sinistra, fanno spesso e volentieri confusione- possono venire nuove idee per la politica, ma che più radicalmente nel discorso pubblico deve affermarsi l’esigenza veramente laica di rinunciare alla ridda delle interpretazioni per tenersi ai fatti, di ricominciare a ragionare sulle coppie concettuali di vero/falso e giusto/ingiusto, dichiarando apertamente che la buona politica consiste nel rifiutare il falso e l’ingiusto per cercare il vero ed il giusto. Il che fra l’altro è alla base dell’ importante recupero del realismo filosofico attualmente in corso da parte di Maurizio Ferraris ed altri.
E’ questa la vera chance per la politica oggi, forse l’ultima.
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