La caduta degli dei leghisti

Può la Gottesdӓumerung essere rappresentata dai Legnanesi? Eviterò di assegnare i ruoli della Teresa, di Mabilia e del povero Gioan, ma mi pare che la rovinosa caduta di Umberto Bossi, circondato da furbetti e furbette in vena di scalate socio-politiche, legittimi l’improbabile interrogativo. E soprattutto dia conto della pietas che ha quasi naturalmente circondato il Capo e Fondatore della Lega Nord nel momento della detronizzazione giudiziaria e mediatica. Lui stesso ha improvvisamente mutato copione lasciando il lessico pagano-barbarico per infilarsi nella Via Crucis del Venerdì Santo nella parrocchia più vicina a Via Bellerio dove officiava don Edy Cremonesi che, conoscendolo, avrà dovuto soprassedere alla tentazione di infilare nel rito qualche pertinente riferimento all’attualità.

Tutto concorre a suggerire la domanda intorno alla saga dei Bossi. Il Senatur infatti aveva deciso molto presto di dare fondamento alla cultura politica della Lega corroborandola di mitiche radici. Conscio della circostanza che il mito nella politica ante-Professori funzionava da mastice e propellente. Una genealogia non si nega a nessuno. Non bastavano il federalista Salvadori e lo schmittiano professore (e laghée) Gianfranco Miglio. Ecco il sole delle Alpi, il dio Po con le processioni estive, le ampolle a raccogliere l’acqua di sorgente del Monviso per recapitarla, sempre processionalmente, in un diluvio di camicie verdi, fino sulla laguna di Venezia. “Operazione idraulicamente inutile”, chioserà Martinazzoli, ma simbolicamente funzionate.

Bossi è molto meno colto di Alain De Benoist e anche di Jorg Heider, ma conosce fino in fondo la psicologia e l’antropologia sociale dei suoi “padani”. Meglio di quanto Rocchetta conosca quella dei Veneti della sua Liga, e infatti lo soppianta e sostituisce anche nella sua patria Regione. Così come farà ad Ovest con i Piemontesi del cantautore Gipo Farassino. Meno storia e storiografia e più mito: è la sua ricetta che mischia le osterie lombarde con sui tavoli “La Gazzetta dello Sport” con i cartoni Hollywoodiani di Schwarzenegger.

Ma in ogni rappresentazione tragica che si rispetti piomba – improvviso – l’imprevisto: il Cigno Nero di Taleb, la hubris, magari un malefico deus ex machina, qualche erinni, insomma l’evento imprevisto e imprevedibile che segna una cesura e una svolta a “U” e scuote il corso degli accadimenti. Del resto le acque del Po non possono confondersi con quelle del placido Don. Nella saga dei Bossi irrompe cioè devastante l’ictus che, come ogni ictus, giunge improvviso, ma lascia un lungo strascico di sofferenze e difficoltà. L’Olimpo di provincia (stiamo sempre nel Varesotto, Gemonio la città santa) corre allora tempestivamente ai ripari, cerca di deviare e governare il corso della storia e, se il caso, di fermare il vento con le mani. Del resto non ci ha insegnato l’operaismo più pensoso che la Grande Politica è quella che muove contro la Storia?

Si materializza il Cerchio Magico: così evocato dal popolo leghista che ha assorbito il lessico immaginifico del Fondatore. Suo compito è preservare il Fondatore per perpetuare la leadership del Capo. Anche le mitologie si aggiornano; non siete stati a vostra volta interrogati dal successo di Harry Potter? E in questo la Lega è incredibilmente moderna a modo suo.

S’impongono le Sacerdotesse. La moglie nell’ombra e che solo il fascio di luce irriverente delle cronache scandalistiche riveleranno sommersa dai libri di astrologia e, sopra tutte e tutti, la Rosy Mauro – la Nera per i leghisti, la Badante per i detrattori – che si stabilisce in Gemonio accanto al Sofferente e lo segue come un’ombra protettrice. Fuori dalla mitologia, l’antropologia etnica parlerebbe non già di omogenee presenze celtiche ma anzi profondamente meridionali (“terrone”): un’autentica nemesi. Secondo i canoni della sociologia americana più politicamente attenta al Bel Paese dovremmo anche parlare con La Barbera della tradizione, persistente al Nord come nel Mezzogiorno, di un familismo amorale.

Tutte le posizioni si ridislocano nel nuovo Olimpo. È l’imprevista fragilità del Capo a imporre il tema della successione. Che sarà dinastica, come nel Valhalla, con il giovane Renzo simpaticamente declassato dall’ironia del padre-padrone da delfino a “Trota”, con tutto il corredo delle dispendiose liturgie e digressioni – l’elezione a consigliere regionale in Lombardia, body guard, auto dalle molte cilindrate e titoli di studio compresi – che il nuovo ruolo comporta. Tutto come da copione, anche perché ogni poema omerico ha il suo Tersite. Più difficile da risolvere il problema del mantra politico, del messaggio in grado di mobilitare sul campo le truppe degli elettori padani. Troppo grande la distanza tra la mitologia dei matrimoni e dei giochi celtici e il programma della Lega. Pontida e il suo pratone non sono Gerusalemme e neppure Roma capitale. Non basta infatti (l’osservazione sta in coda al fondo pasquale sul “Corriere della Sera” di Galli Della Loggia) la rivendicazione e la rappresentanza degli interessi di una popolazione. Grazie a Dio non basta, perché la politica non può essere ridotta a sindacato del territorio e al rancore di una macroregione.

Perfino i soli dell’avvenire e l’uomo integrale risultano al confronto rivalutati al mercato dell’ideologia. Il problema esizialmente tragico è che non bastano neppure alla Lega per legittimare se stessa nei tempi lunghi. Le mitologie raffazzonate vanno in frantumi contro le teste dure dei fatti. Le patacche non durano. Così come appare destinata a non mettere radici da noi la prospettiva della riduzione svizzera della politica ad amministrazione, che costituisce il vanto di alcuni massimi esponenti della Confederazione Elvetica. Neppure un federalismo rabberciato riesce a decollare in un Paese che può legittimamente pensarsi erede del Cattaneo e che ha visto l’idea federalista sviluppata soprattutto dal pensiero meridionale: da Sturzo a Salvemini, da Dorso a Lussu. Non essersene ricordati non è stato un vantaggio per gli uomini del Nord.

Ed ha impedito loro di avanzare legittimamente la pretesa a governare un Paese bensì attraversato da profonde differenze regionali (gli italiani quando vanno all’estero si riscoprono piemontesi, veneti, abruzzesi, siciliani, scriveva Prezzolini) ma che comunque sta faticosamente cercando una sia pur variegata e discorde unità. Copiando l’ammonimento europeo di Helmut Kohl alla Merkel potremmo sentenziare: l’Italia rimane senza alternativa… E suonano come barzellette raccontate a un funerale le improvvise scampagnate in Baviera per annegare in un boccale di birra bionda la delusione di cocenti sconfitte: neppure l’Oktoberfest può essere anticipata per funzionare da diversivo.

Tutta la classe dirigente della prima Repubblica lo aveva chiaro: De Gasperi e Moro, Togliatti e Nenni, La Malfa e Malagodi. Quello degli italiani è un cammino inevitabilmente unitario. E su questo piano gli “sdoganamenti” berlusconiani non hanno fatto nuove acquisizioni, ma soltanto aumentato la confusione.

Dunque? Conservare la pietas, e tornare alla politica.

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