Due film che aiutano la democrazia a non perdere la memoria

Sono andato al cinema per vedere i film “Romanzo di una strage” e “Diaz”, nello stesso pomeriggio, uno dopo l’altro. Volevo legare anche temporalmente le emozioni legate a due dei “buchi neri” della mia memoria e della mia coscienza di cittadino. Per la mia generazione (classe 1949, matricola universitaria nel novembre 1968)) la strage di piazza Fontana è stata davvero il momento della mia (nostra) prima seria crisi nei rapporti con lo Stato e le sue istituzioni. Il Movimento – si dice spesso, ed è vero – perse allora la sua innocenza. Certo dopo quel pomeriggio niente fu più uguale, perché troppi sono stati i funerali ai quali abbiamo dovuto partecipare.

Personalmente ci ho messo alcuni decenni a tornare a un rapporto di fiducia con polizia e carabinieri, magistratura e “servizi”. Ci sono voluti la lotta al terrorismo e la lotta alla mafia, il lavoro serio e coscienzioso di magistrati e giornalisti, la volontà di non arrendersi alle versioni ufficiali e alle spinte al “tanto peggio tanto meglio”. E questo ha tutto sommato funzionato, nonostante l’accumularsi di delusioni per le verità giudiziarie sempre a portata di mano e sempre negate. Complessivamente è cresciuta la consapevolezza dei cittadini, il Paese ha retto, nonostante e a dispetto delle zone buie e grigie e dei suoi burattini e burattinai. Per dirla con Pasolini, “noi sappiamo” chi ci ha rubato gioventù e speranza e fiducia.

Venne poi il G8 di Genova, con la festa di popolo e le provocazioni tollerate, “utili” a chi aveva già pianificato la sospensione delle garanzie costituzionali,  attraverso la volontà politica di trasformare la libertà di manifestare in un problema di ordine pubblico. E che permise gli orrori della Diaz e di Bolzaneto. La mia fiducia nei confronti degli organi di polizia arretrò di nuovo, precipitosamente.

Desideravo, dunque, vedere come due registi che stimo (Giordana e Vicari), molto diversi fra loro, hanno affrontato i due eventi, con forme espressive differenti, rendermi conto di quale messaggio fossero riusciti a offrire allo spettatore (soprattutto giovane) e come, con quale risultato. Dico subito che mi congratulo con entrambi per il lavoro che hanno fatto. Avevo già letto un po’ di recensioni e commenti, i dubbi, le contestazioni… Capisco, ma non condivido.  Quanti film sulla Seconda guerra mondiale o sullo sterminio degli indiani abbiamo visto, senza fare le pulci sui dettagli degli “effetti collaterali” durante lo sbarco in Normandia o su Little Big Horn. Davanti a una società sempre più tentata di svendere la memoria collettiva e i valori civili, ogni stimolo per pensare e emozionarsi per tragedie vere e reali non può che essere benvenuto.

Dico subito che ho sofferto di più per il film su Genova che per quello su piazza Fontana. Forse perché i fatti sono ancora vicini e bruciano, forse perché ci sono coinvolti i nostri figli e i loro amici, forse perché si poteva immaginare che chi è addetto alla tutela della legalità in una Repubblica democratica dovrebbe essere vaccinato contro la violenza gratuita e bestiale. Ho sofferto, mi agitavo sulla poltroncina del cinema, mi ha fatto male vedere lo scatenarsi del lato peggiore degli esseri umani. Mi sembrava di assistere a un remake aggiornato dei più crudi film di Mel Gibson. Ripensavo ai Vangeli letti nella recente Settimana Santa che narravano di sputi e percosse su un inerme prigioniero…

E credo davvero che sarebbe opportuno ascoltare le scuse da parte di qualcuno (vero, onorevole Fini? Vero, onorevole Scajola?), ammettendo almeno che si andò “al di là” della garanzia dell’ordine pubblico. Dopotutto ci sono norme di diritto umanitario che vietano l’uso di maltrattamenti e violenze gratuite sui prigionieri. E in Sudafrica hanno costruito un Paese nuovo sul metodo del riconoscimento pubblico e reciproco delle colpe fra vittime e carnefici.

Il film è costruito sui dati processuali, le testimonianze, i filmati amatoriali, le ammissioni. E ci si rende conto che quei giorni segnarono probabilmente la nascita ufficiale dei “social media” come supporto e feed-back dei giornali e delle tv tradizionali. E anche questo è un fatto positivo. Il potere (o meglio gli omuncoli che gli danno faccia e corpo) potrà continuare a comportarsi in maniera arrogante e sprezzante, ma difficilmente scamperà alla documentazione di un telefonino o di una videocamera digitale.

Tutte cose che, ovviamente, mancarono ai colleghi che dal dicembre 1969 remarono controcorrente dando vita alle contro-inchieste che ridicolizzarono le versioni ufficiali. Onore, dunque, all’amico compianto Marco Nozza, il “pistarolo”, che da allora dedicò la vita a rintracciare fili di storie insanguinate. Nel film di Giordana è fra i personaggi più pronti a voler capire cosa è davvero successo, e compare insieme ai colleghi Palumbo, Cederna, Pansa e Stajano. Ho avuto modo di conoscerli tutti negli “anni di piombo” e il loro insegnamento professionale e umano rimane indelebile nella memoria. Onore anche alle donne Licia Pinelli e Gemma Calabresi, che hanno saputo, recentemente, stringersi la mano, vittime di un gioco cinico che mieteva vittime a 360 gradi. E un grazie ai due registi.

Mi rimangono scolpiti dentro i volti di quei funzionari (“servitori dello Stato”? ma mi faccia il piacere…) che coprono, deviano, indirizzano, mentono, scherzano, minacciano… E ripenso ai poliziotti che infieriscono sui ragazzi e sulle ragazze: chissà se qualcuno di loro è mai stato interrogato dai figli “papà, ma tu eri là quella notte?”.

Dico tutto questo nell’attesa (illusione?) che chi sa parli e produca documenti. E’ di qualche giorno fa la più recente, cocente delusione per la resa di una corte, impossibilitata a dare certezza giuridica a una verità che il “senso comune” ha già acquisito. Possibile che ci siano capimafia che consegnano “papelli” ai magistrati e nessuno (nessuno!)  dei politici della nostra beneamata Repubblica se la senta di raccontare almeno qualcosa? Vergogna.

 

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