Il riformismo dei cattolici, una responsabilità verso la storia

Il dibattito sul voto amministrativo parziale di maggio sembra sinora aver evidenziato più le posizioni tattiche delle forze politiche a scapito delle strategie idonee ad affrontare l’attuale emergenza economica e sociale. Per questo occorre compiere uno sforzo per andare oltre le pur importanti questioni delle alleanze. Una strategia riformista capace di essere significativa ed incisiva, capace di aggredire le questioni poste da quel grande processo di dislocazione geopolitica in corso, di cui la crisi economica non rappresenta che uno degli aspetti, non può esimersi dall’affrontare due questioni centrali come quelle del modello di democrazia e del modello economico e sociale. Ciò riguarda in modo particolare i cattolici, per l’apporto che possono dare ad un nuovo riformismo. “Questo riformismo – culturalmente lontano dalle istanze del Fondo Monetario Internazionale o della BCE – prospetta una visione di società e di relazioni, manifesta un progetto di sviluppo e, soprattutto, cerca di porre le condizioni affinché si possa affermare il principio di fraternità”. Questa è la sfida, nei termini con cui l’ha posta di recente Andrea Olivero, al congresso nazionale delle Acli.

Una sfida politica che oggi va dimensionata ai problemi del conglomerato di Paesi della moneta unica europea. Ma che non può essere elusa senza correre il rischio di ridare slancio alle soluzioni nazionali, che forse piccoli Paesi come l’Islanda possono permettersi, ma che renderebbero i singoli grandi Paesi europei secondari di fronte all’agguerrito club dei Paesi emergenti.

Si situa a questo livello il banco di prova dei vari riformismi: quello cattolico, quello di Hollande e di Gabriel, quello del Partito Democratico, senza dimenticare che nell’Europa a ventisette il peso dei nuovi Paesi è almeno pari a quello dei sei Stati fondatori. Servono cambiamenti sostanziali alla politica economica e monetaria europea. É lecito dubitare, come ha riconosciuto con molta onestà intellettuale il responsabile economico del PD Stefano Fassina, che la sinistra storica riesca da sola in tale compito, anche perché è apparsa in questi anni piuttosto subalterna ai poteri dominanti della finanza internazionale. Sono gli stessi esponenti della sinistra ad invocare il contributo al riformismo dei cattolici e delle categorie di pensiero dell’insegnamento sociale della Chiesa. Per questa via si rinsalda in Italia il progetto del PD, oltre i pericoli di deriva salottiera e laicista, da partito radicale di massa, che riemergono non appena le questioni economiche e sociali cessano di essere al centro dell’attenzione. Il nuovo centro sinistra europeo si costruisce, mettendo in agenda le cose da fare per far ripartire l’economia dell’area Euro.

La gestione della Moneta unica non può più essere mera materia di tecnocrati, come se la moneta fosse una variabile indipendente dell’economia, ma deve essere subordinata con più decisione alle esigenze di sviluppo economico e sociale di Eurolandia. La via della compressione dei salari e dei diritti dei lavoratori deve conoscere dei limiti, pena l’asfissia della domanda interna. Prima lo capirà la Germania e meglio sarà per tutta l’eurozona.

In questi anni quel poco di politica economica europea che si è avuta è stata in gran parte ispirata alla meccanica traduzione in norme di postulati ideologici delle dottrine economiche neoliberiste. Il risultato è stato che mentre i Paesi emergenti stanno difendendo con le unghie e con i denti le loro produzioni ed agevolando la crescita della classe media, l’Europa sta dissipando il suo vantaggio tecnologico e sociale e sta dissanguando la propria classe media, sulla quale, è bene mai dimenticarlo, si regge il suo modello democratico. Il riformismo significa oggi rendere la politica capace di riprendere le redini della Comunità europea, con tutto ciò che ne consegue sul piano di un intelligente intervento pubblico in economia e dell’imposizione di significative barriere doganali a tutela della dignità del lavoro, intra ed extra UE.

L’altra questione centrale per un nuovo riformismo è quella istituzionale, sulla quale sarebbe bene mantenere una visione ampia e coerente, che non appaia traballante dopo il pur importante voto di maggio a Nocera Inferiore e in qualche altro centinaio di comuni. Troppe sono le convenienze del sistema di elezione del porcellum, troppi sono i deficit manifestati dalla democrazia a vocazione plebiscitaria della seconda repubblica che rimane oramai difficile tentare di togliere il coperchio ad un sistema di selezione delle cariche istituzionali modellato, dal piccolo comune al parlamento, su misura dei più ricchi e dei più forti, sul sacrificio della rappresentanza sull’altare di una governabilità puramente di facciata, ma che in realtà appare come una ingessatura autoritaria della dialettica politica, come hanno dimostrato numerose vicende tra cui l’inverosimile situazione che da lungo tempo investe la Regione Lombardia.

I nostalgici del maggioritario, del voto alle coalizioni anziché ai partiti, come il prof. Parisi e l’on. Ignazio La Russa, indicano una prospettiva altamente rischiosa, per non dire suicida per il centro sinistra. La bozza Violante, pur con dei limiti, recepiva la necessità di una svolta, innanzitutto per uscire da quell’impasse che per quasi vent’anni ci ha allontanati dall’Europa, a cui ci hanno condotto delle modifiche alla legge elettorale non accompagnate da coerenti riforme istituzionali.

La frenesia da “gioiosa macchina da guerra” ha spianato la strada al ventennio berlusconiano. Il PD con Violante, ma anche con Ceccanti aveva intrapreso un saggio percorso nell’interesse del Paese in tema di riforma elettorale, che solo una superficiale lettura di una tornata amministrativa parziale rischia oggi di rimettere in discussione. Evidentemente non tutti hanno appreso la lezione che con le carte della strategia plebiscitaria a vincere in prospettiva è la Destra.

Infatti, senza un cambiamento della legge elettorale, senza restituire ai cittadini il potere di scelta dei candidati, dei partiti e delle coalizioni, le quali come in tutte le democrazie europee si devono poter formare sulla base delle indicazioni emerse dal voto, continuerà a prevalere la logica delle alleanze fatte per vincere, non per governare, tanto meno per cambiare.

Un disegno che difficilmente sembra potersi coniugare con un nuovo riformismo cattolico.

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