CARLO MARIA MARTINI (1927-2012)

“O Padre, padre, dipartito da noi,perduto per noi, come faremo a trovarVi? Da quel luogo lontano guarda giù, verso di noi!Tu, ora in Cielo, da chi saremo protetti? Dopo qual viaggio, attraverso quale terrore,riavremo la tua presenza? La tua forza, di chi sarà il retaggio?”

Intervistato da Enzo Biagi pochi giorni prima della sua consacrazione come Arcivescovo di Milano il gesuita Carlo Maria Martini confidò al giornalista che in gioventù, nel noviziato dove si preparava ad entrare fra i figli di Sant’Ignazio, aveva recitato amatorialmente interpretando il ruolo di Thomas Becket in “Assassinio nella cattedrale” di T.S. Eliot. Naturalmente le circostanze della morte del Cardinale sono diverse da quelle dell’antico Arcivescovo di Canterbury trucidato dai sicari di un Re che era stato il suo migliore amico. Nello stesso tempo, le parole del coro delle donne e dei preti di Canterbury riportate sopra esprimono bene il sentimento dei credenti, e non solo il loro, alla notizia della scomparsa di una delle più straordinarie figure della Chiesa universale del XX secolo, che è andata ben oltre il pur importante ruolo di Arcivescovo della Sede più importante della Chiesa cattolica dopo quella di Pietro, ma ha affascinato e coinvolto per la sua statura umana e culturale donne e uomini di ogni fede e convinzione religiosa, come pure coloro che si dicono non credenti.

Dire, come è stato più volte ripetuto, che Martini era il “Vescovo del dialogo” è certamente vero ma è insufficiente, perché servirebbe a rendere l’immagine, alimentata spesso da commentatori superficiali o da politicanti ecclesiastici e non in malafede, di un uomo che si adattava al pensiero altrui. In realtà Martini dialogava perché aveva qualcosa da dire, e questo qualcosa, lo disse a Biagi in esergo alla sua opera pastorale, e lo confermò attraverso di essa fino all’ultimo giorno della sua vita, era essenzialmente il Vangelo di Cristo, la Parola che lo aveva affascinato da giovane, che aveva studiato per tutta la sua vita, che aveva pregato, sminuzzato, trasformata in cibo per coloro che, soprattutto giovani, accorrevano a lui per cercare un orientamento nella loro vita o anche solo una fiammella che li illuminasse e li confortasse.

Fu anche questo il senso della “Cattedra dei non credenti”: convinto che ogni uomo portasse dentro di sé un “sì” e un “no” alla presenza di Dio nella sua vita, e che il problema fosse quello di far emergere il senso di fondo di questa antinomia, il Cardinale volle confrontarsi con coloro che sentivano diversamente da lui non per cercare improbabili conversioni o per bearsi di discorsi vaghi, ma per andare al cuore delle problematiche che definiscono la vita di ciascuno di noi, sapendo che la distinzione fondamentale, come amava spesso dire, non è fra credenti e non credenti ma fra pensanti e non pensanti.

D’altro canto, la preoccupazione fondamentale di Martini rispetto all’evolversi della situazione mondiale ed italiana consisteva essenzialmente nel vedere quanto fosse compromessa la dignità dell’essere umano dal progredire di una scienza e di una tecnologia asservite alla logica del profitto. Queste sue preoccupazioni le esternò, si può dire, da subito dopo l’inizio del uso ministero pastorale, mentre cominciava a crescere, nella cultura corrente (anche in quella ecclesiastica) il mito fasullo del neoliberismo, spesso spacciato come versione fedele in termini economici dell’insegnamento sociale della Chiesa .

Soprattutto il Cardinale era preoccupato per la torsione assunta dalla figura pubblica della Chiesa all’indomani del Convegno ecclesiale di Loreto del 1985, che aveva rappresentato l’inizio di una forma di presenza declinata in termini politici la quale, percependo la debolezza delle tradizionali alternative ideologiche, si faceva forza di comando non in virtù di una fede declinante perché non basata su solidi fondamenta evangeliche, ma di una presenza politica ed economica che si appoggiava non alla forza della fede ma ad una “tradizione” o ad un “progetto culturale” che avevano un indubbio impatto mediatico e politico, ma non lasciavano nulla nel cuore e nelle menti delle donne e degli uomini, nulla che spingesse all’ascolto e alla conversione. Ora che quei nodi in un modo o nell’altro stanno venendo al pettine, sarebbe importante ricordare la lezione di Martini che in uno dei suoi ultimi libri ricordava che: “
“Secondo le statistiche il numero di coloro che frequentano regolarmente la messa alla domenica è ridotto. L’influenza pubblica dei pronunciamenti della Chiesa è scarsa, soprattutto sul terreno morale. Pochissimi sono i cristiani che, nelle parrocchie e nei gruppi, si impegnano veramente a testimoniare il Vangelo […] E non pochi sono oggi coloro che non cercano nel cristianesimo ma altrove una risposta alle loro domande di senso. Definirei in ogni caso la nostra situazione di Chiesa come quella di una minoranza impegnata e motivata che porta il peso di una maggioranza che compie talvolta qualche gesto religioso per abitudine e non per convinzione profonda e personale “

Da questa condizione di marginalità della Chiesa, rispetto all’insieme dei fatti economici, sociali e culturali, derivano due posizioni: «il voler essere a ogni costo di nuovo una forza rilevante della società; oppure il riconoscere con serenità che il proprio compito di piccolo gregge, in apparenza più modesto, è di fatto molto più esigente e necessario per il bene di tutti: essere lievito nella società, piccolo seme di nuovi germogli».
Il riconoscere con serenità di essere piccolo gregge, rinunciando al voler essere ad ogni costo una forza rilevante nel quadro politico della società, implica un preciso «ethos di umiltà, di mitezza, di misericordia, di perdono, di riconoscimento delle proprie colpe anzitutto all’interno della Chiesa». Mentre i cristiani che aspirano ad una rivalsa sociale e politica, «vivono con ansietà la sensazione di essere circondati da forze ostili. […] Da qui, talora, un linguaggio un po’ incattivito e contrappositivo, “tertullianeo” (un linguaggio di cui non ha bisogno il clima già sovreccitato della contesa politica) o, al contario, una depressione che dà luogo a un diffuso piagnisteo sterile».
Ma ora che dopo gli anni del governo pastorale, quelli del ritorno a Gerusalemme e quelli della lotta contro la malattia, nella quale ha impartito la sua ultima e più alta lezione, questo “servitore generoso del Vangelo e della Chiesa”, come lo ha definito Benedetto XVI, si è avviato verso l’estremo mistero nella coscienza di essersi sforzato di realizzare il mandato che San Paolo affidava al vescovo Timoteo di tendere “alla giustizia, alla pietà , alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza”, avendo combattuto “la buona battaglia delle fede”, non solo , come dice il motto della Compagnia di Gesù, per “la maggior gloria di Dio”, ma anche per la vita degli uomini.
E in questo ultimo viaggio lo accompagneranno le parole finali del coro nel dramma di Eliot: “Noi Ti lodiamo, per la Tua gloria, Signore, dispiegata nelle tue creature su tutta la terra. Nella neve. Nella pioggia, nel vento, nella tempesta, in tutte le creature. Nei cacciatori, come nelle prede che sono cacciate:ché tutte le cose esistono soltanto come viste da Te. Solo, come da Te conosciuto. Tutte le cose esistono nella tua luce soltanto. La tua gloria è dichiarata, anche da ciò che ti nega;la tenebra stessa dichiara la gloria della Tua luce. Coloro che ti negano, non potrebbero difatti negarti,se Tu veramente non esistessi. E la loro negazione non può non avere consistenza Ché, se così fosse, essi stessi non potrebbero aver esistenza. Essi, vivendo, ti affermano: tutte le cose viventi, Ti affermano.”

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