Ripensare le regioni, non solo eleggere i successori della Polverini e di Formigoni

Il Lazio travolto dagli scandali sull’utilizzo dei fondi dei gruppi consigliari, la Lombardia caduta in seguito a inchieste su infiltrazioni mafiose, il Piemonte tecnicamente fallito, la Sicilia con un bilancio fuori controllo. Ecco le regioni d’Italia, l’asse avanzato della riforma dello stato in senso “federale”, brillantemente guidate dai “governatori” voluti direttamente dal “popolo”. Le cronache di queste ultime settimane consigliano di riflettere su cosa sta accadendo. Non si tratta infatti di eventi imprevedibili ma delle amare conseguenze delle scelte confuse e contraddittorie compiute nei decenni addietro.

Previste dalla Costituzione e nate come enti nel 1970 le regioni avrebbero dovuto assolvere a due compiti fondamentali: la pianificazione territoriale raccordata con gli altri enti locali, comuni e province, ed una equilibrata legislazione regionale a completamento ed integrazione di quella nazionale e di quella comunitaria.

Ma ben presto sulle regioni si sono riversati progetti che le avrebbero snaturate e rese quei carrozzoni per lo più inutili e costosi, crocevia di ogni sorta di affari leciti e meno leciti, che conosciamo.

Forse è utile ricordare che un modello di stato a forte base regionale fu già utilizzato dalle potenze vincitrici per rallentare la ripresa della Germania come entità statale nel dopoguerra. Inoltre, l’esaltazione delle identità regionali che si trasformano in micro-patrie e staterelli è stata sostenuta, anche a prezzo di un copioso spargimento di sangue, nella nuova geografia imposta dall’Occidente ai Paesi balcanici, dopo la fine della divisione in due blocchi dell’Europa.

L’Italia non poteva rimanere immune da tali processi mentre la strategia dei poteri forti e transnazionali, legati all’ampliamento delle attività speculative della finanza, vedevano nelle regioni il grimaldello per un indebolimento degli stati nazionali. Uno studio della Fondazione Agnelli del 1996 già prefigurava la riduzione delle regioni italiane a sole dodici, sorvolando su cosa avrebbe potuto significare per la tenuta dell’unità nazionale, supponiamo, la macro regione delle Tre Venezie. Nel frattempo i grandi media enfatizzavano gli accordi transfrontalieri tra regioni ben oltre gli obiettivi giustificabili che si proponevano i contraenti, al fine di innescare la formazione di macro regioni potenzialmente capaci di svuotare il ruolo degli stati. Nel Paese si è così creato un clima favorevole all’ampliamento dei poteri delle regioni favorito anche dagli autentici deliri contenuti nel programma della Lega Nord, che non solo non sono stati adeguatamente contrastati, ma addirittura assecondati dal governo di centro sinistra con quella frettolosa riforma del Titolo V della Costituzione.

Ecco perché, seppure è indispensabile che quelli che saranno i successori della Polverini e di Formigoni marchino una netta discontinuità etica e politica (in questo senso credo rappresenti una preziosa risorsa per la guida della Lombardia quella di Fabio Pizzul), questo tuttavia non potrà essere da solo sufficiente, perché temo che ciò che va cambiato non siano solo le persone ed i programmi ma anche il modello di regione che si è andato affermando soprattutto dopo la riforma elettorale “presidenzialista” e sulla spinta della propaganda leghista del cosiddetto “federalismo”.

Vi sono almeno tre punti da affrontare per una seria riforma delle regioni.

Il primo riguarda le loro competenze. Il Titolo V della Costituzione per come è stato riscritto nel 2001 sembra minare alla base l’autorità statale, confonde il decentramento e la sussidiarietà con il caos di una Repubblica concepita non più secondo il riconoscimento dei corpi intermedi e di successivi gradi di intervento delle istituzioni pubbliche, rispettosi delle prerogative dei livelli più vicini al cittadino, bensì secondo il principio enunciato all’art.114, che mettendo tutti gli organi pubblici sullo stesso piano non solo svaluta l’idea di una collaborazione armoniosa ed organica fra i vari livelli di governo ma pone i presupposti per una perenne conflittualità che che porta, come ha portato, ad un diluvio di ricorsi che blocca le opere pubbliche e frena lo sviluppo. Se la regione sta sullo stesso livello dello stato (come il comunello o una della tante nuove province di cui adesso saggiamente torniamo a fare a meno), essendo anche ente legislativo, si pone il problema di quali siano i limiti della sua iniziativa legislativa ed anche qui il Titolo V riformato ha aperto la strada agli eccessi emersi dalle cronache recenti, quando afferma all’art. 117 che la potestà legislativa delle regioni si esercita su tutto ciò che non è espressamente riservato alla legislazione dello Stato. In tal modo il Consiglio regionale, poniamo, del Molise ha potuto sentirsi come Westminster, come un vero e proprio parlamento nazionale. Pur senza nostalgie neo centraliste, va al più presto ribaltata questa impostazione, circoscrivendo l’attività legislativa delle regioni a quanto espressamente indicato in Costituzione. In termini di costi, poi questo panregionalismo ha portato ad avere costi complessivi di funzionamento dei consigli e delle giunte regionali di circa un miliardo e duecento milioni, come se si fosse istituita una “terza camera”, anziché procedere alla riduzione del numero dei parlamentari.

Un secondo aspetto della riforma delle regioni dovrà fare chiarezza sull’uso equivoco del termine “federalismo”. In termini giuridici infatti, è un non senso parlare di assetto federale per le nostre regioni, mentre risulta appropriato parlarne per gli stati nei confronti della Comunità europea, questo è l’unico processo federalista in corso. Ma i danni maggiori il federalismo in salsa leghista li ha fatti sul piano politico quando ha innescato dei processi tendenti ad organizzare la sanità, la scuola, i trasporti, i servizi secondo modelli regionali. Un conto è il buon senso nel tener conto delle specificità regionali, altra cosa è esagerare nell’imporre delle caratterizzazioni che rischiano di intralciare la vita quotidiana dei cittadini con anocronistiche, e talora grottesche, differenziazioni fra regione e regione che ci riportano all’Italia pre-unitaria. Persino sulla sanità ci sono delle ragioni che consigliano un cambio di rotta, lasciando alle regioni l’organizzazione dei servizi, entro schemi definiti in ambito nazionale, ed attuando una sana centralizzazione degli acquisti, viste le enormi disparità di costi dei prodotti ad uso sanitario nei vari angoli della Penisola.

Infine, vi è una terza questione da considerare per una decisa riforma delle regioni. Essa riguarda la legge elettorale ed il modello istituzionale, l’equilibrio dei poteri fra assemblea ed esecutivo. L’elezione diretta del presidente della regione, nelle modalità in cui attualmente avviene, espone a molti rischi.

Quello maggiore è che rende possibile l’elezione di presidenti con un mandato popolare molto forte, e nel caso che un presidente intendesse portare avanti istanze di tipo secessionistico, sarebbe molto difficile da contrastare dal livello nazionale. Ma se questo può esser considerato, finora, un caso limite, i rischi più frequenti sono quelli relativi al normale rapporto tra assemblea consigliare ed esecutivo. Il sistema è fortemente sbilanciato in favore del Presidente rispetto al Consiglio. L’elezione contestuale dei due organismi pregiudica l’autonomia della maggioranza che sostiene il presidente. Essa è ostaggio dell’Esecutivo e la giunta è ostaggio del presidente, il cui operato di fatto prescinde da un adeguato controllo politico. In un tale squilibrio istituzionale sono potuti maturare quegli scandali di entità impensabile, che stanno emergendo nelle inchieste giudiziarie che riguardano le regioni.

Quantomeno dovrebbe essere posta all’ordine del giorno una diversa modalità di elezione diretta dei presidenti, magari, come in Francia con la necessità di un voto di conferma del Consiglio. Ma vista l’esperienza non così soddisfacente dell’uomo solo al comando, di “governatori”, “zarine” e “celesti” che hanno occupato i palazzi della politica delle regioni d’Italia, si potrebbe anche guardare ad altri modelli che ridiano ruolo politico ai Consigli regionali e che rendano l’istituzione regionale più snella, trasparente e commisurata ai reali bisogno del territorio e non più sovradimensionata, faraonica ed usurpatrice di funzioni e di risorse che spettano ai comuni o alle province.

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