A proposito di scelte politiche. Il ruolo delle ACLI. La riflessione di un militante di lungo corso

La scelta di posizionamento politico fatta dal Presidente Nazionale delle ACLI Andrea Olivero circa un suo impegno assieme ad altri esponenti dell’associazionismo cattolico, nell’avviare un processo che potrebbe sfociare in una nuova formazione politica, ha riaperto un dibattito importante, tutt’altro che nuovo nel mondo cattolico, che riguarda il rapporto fra l’Associazione e le forme organizzate della politica: i partiti.
Evidentemente il dibattito non può essere svolto ne invocando principi astratti, ne su basi ideologiche aprioristiche, ne tantomeno guardando semplicisticamente alle imminenti scadenze elettorali, ma cercando di collocarlo in un contesto sociale e politico di ampio respiro. Meglio sarebbe discutere dei contenuti, delle condizioni di vita difficili in cui versano moltissimi cittadini italiani più che dei contenitori, forse si recupererebbe così un rapporto diverso, più costruttivo fra rappresentanti e rappresentati, associazioni e cittadini. Si potrebbe colmare così il vuoto impressionante di credibilità e la caduta verticale di fiducia nei confronti del ceto politico e della stessa politica.

Vale la pena di ricordare che nel corso della “prima repubblica” furono molte le tensioni anche con esito traumatico, che traevano origine da questo tema, non sempre risolto positivamente. Come tutti sanno le ACLI, in parallelo con la CISL, attraversarono momenti difficili, in un contesto di forti cambiamenti e di tensioni sociali che lasciarono un segno profondo in tutto il mondo del lavoro. Dure furono le battaglie interne, la dialettica politica molto aspra, molti dirigenti e militanti si esposero pubblicamente, con coraggio, per conquistare il valore dell’autonomia e affermare la libertà dei cattolici di scegliere l’opzione politica che ciascuno può ritenere in coscienza più consona al perseguimento degli ideali e degli obiettivi in cui crede. Venne superata così positivamente la fase del collateralismo stretto con la Democrazia Cristiana. Si aprirono nuovi orizzonti e nuove prospettive per la presenza di laici, testimoni di un cattolicesimo adulto, più maturo in politica ed una maggiore valorizzazione del ruolo pastorale della Chiesa, libera di svolgere la propria funzione evangelizzatrice, forte della proprie radici ben salde nel messaggio evangelico e della propria capacità di convincimento dei fedeli, senza alcuna delega implicita o esplicita alla politica finalizzata all’affermazione dei propri principi etici e morali, nel rispetto della laicità delle istituzioni rappresentative dell’intera comunità nazionale.

I partiti storici, all’inizio degli anni ’90, furono attraversati da una diaspora di militanti e di elettorato senza precedenti. I cattolici, in particolare, si collocarono in quasi tutte le neonate formazioni politiche sorte in quel contesto nonostante la loro fragilità culturale, strutturale e democratica. Nel corso degli ultimi due decenni l’assetto partitico del paese si è mostrato molto fluido. Innumerevoli sono state le scomposizioni e le ricomposizioni e non si può certo dire che ai giorni nostri si sia in presenza di una situazione stabilizzata. Si pensò allora che bastasse costruire un sistema politico bipolare attraverso le leggi elettorali per affermare quel sacrosanto principio di alternanza che sta alla base di ogni democrazia compiuta e che potesse rispondere alle esigenze di stabilità e di governabilità tanto agognate nella prima repubblica. L’alternanza c’è stata, ma per imperizia, incoscienza e superficialità di taluni protagonisti è stata pagata a caro prezzo. E’ venuto meno il consenso identitario che ha caratterizzato tutta la politica italiana del secolo scorso, che pur conferendo stabilità al sistema politico metteva in secondo piano la dimensione programmatica. Ha preso il sopravvento una connotazione leaderistica e populistica della politica. Hanno perso di significato le forme di costruzione degli orientamenti attraverso il rapporto diretto con le persone a favore di quello mediatico e troppo spesso demagogico.  E’ prevalso l’interesse personale e di gruppo ottenuto con ogni mezzo, compreso l’uso personale delle istituzioni e la pratica illegale, sull’interesse generale e sul bene comune.
In una prima fase si pensò che fosse necessario ricostruire i partiti, per adattarli al sistema bipolare. Entrambe i poli, di centro destra e di centro sinistra, attraverso innumerevoli tentativi, spesso falliti per l’impossibilità di ricomporre le tensioni all’interno delle rispettive coalizioni, si posero come obiettivo la costruzione di forti aggregati politici, plurali al loro interno, che potessero attenuare il potere marginale di icatto delle piccole formazioni politiche. Alla prova elettorale il centro sinistra venne clamorosamente sconfitto. La coalizione di centro destra vinse le elezioni con un margine senza precedenti, ove la “gestione del potere con ogni mezzo” e con una forte e facoltosa leadership, la rese oltremodo coesa, ma crollò sotto la vergogna degli scandali, dell’impresentabilità dei propri massimi rappresentanti e dell’incapacità di aggredire una crisi dalle caratteristiche eccezionali.

Già dalla metà degli anni novanta dentro il centro sinistra si fronteggiavano due strategie diverse. Quella a cui abbiamo già fatto cenno, volta alla costruzione di un forte partito plurale di centrosinistra, voluta da Prodi e da Veltroni, il cui embrione era l’Ulivo, approdato poi al Partito Democratico e quella che veniva semplificata con la formula “centro – trattino – sinistra”, cioè due aggregati alleati, uno di centro e uno di sinistra. Considerato fallito il primo scenario alla prova elettorale, ci si accinse ben presto a creare le basi per sperimentare il secondo scenario. I dubbi, le incertezze, le incomprensioni che attraversano il mondo politico in questi mesi, trovano spiegazione in questo mutamento radicale di strategia, voluto principalmente dal PD di D’Alema, di Bersani e da quella parte del mondo cattolico che non hanno mai smesso di pensare che le matrici politiche che hanno dato origine alle socialdemocrazie europee e al partito popolare europeo sono ancora oggi completamente attuali. In questo contesto l’UDC di Casini sembra essere la formazione politica più coerente che spera molto nella conquista dall’area di centro ancora in larga parte sommersa costituita da una parte significativa dell’elettorato in libera uscita a seguito della disfatta del PdL. Per sua natura questa strategia indebolisce oggettivamente la presenza nel PD dell’area di estrazione non comunista e sorprendentemente ripropone uno scenario già praticato ed esaurito nella prima repubblica.
E’ evidente che il PD si trova davanti ad un’occasione forse irripetibile per una vittoria senza contendenti a condizione che sappia costruire una coalizione, non troppo affollata altrimenti si ripete la situazione tanto criticata del primo e del secondo governo Prodi e non troppo disomogenea. Questo spiega da un lato perché le primarie sono state fatte solo fra PD e SEL, è il preludio alla costituzione dell’aggregato di sinistra e dall’altro il fiorire di liste, fra cui quella a cui lavorano i presidenti delle ACLI e della CISL, volte ad irrobustire il Centro, che dai sondaggi risulta alquanto debole e quindi insufficiente a garantire una maggioranza decente, equilibrata e la governabilità futura del paese.

Questo spiega anche le difficoltà che si stanno incontrando nell’approvazione, peraltro tardiva, di una nuova legge elettorale che cancelli la vergogna di quella esistente. Le tentazioni di mantenerla in vita non mancano. Il “porcellum” farebbe comodo a chi si trova in posizione favorevole per il consistente premio di maggioranza previsto e perché consente di mantenere la selezione degli eletti in mano a pochi segretari di partito. Questo spiega anche perché il centro, ancora informe, per non finire in una condizione di subalternità, tende a ri-proporre la candidatura di Monti, che figura, nonostante le critiche, in testa ai sondaggi.
L’insieme di questi ragionamenti se spiegano una situazione politica oltremodo difficile, son però ben distanti dal costituire motivazioni forti per recuperare metà dell’elettorato potenzialmente astensionista, ridare credibilità alla politica e rispondere ai bisogni di una gran parte della popolazione stremata, per la mancanza di lavoro, di reddito e di protezione sociale, ridare entusiasmo ai militanti sfiduciati e delusi dallo squarcio aperto dalle indagini e dai media sulle modalità di gestione della politica a tutti i livelli. Occorre avviare un’opera di ricostruzione e di rinnovamento che parta dalla riscoperta delle coordinate fondamentali, dalle finalità primarie della politica, dalla costante battaglia per la costruzione di un’etica civile condivisa, dalla rivalorizzazione delle istituzioni.

Le ACLI

Nel contesto sopra descritto il rischio che le ACLI scivolino in un forma, magari inedita, di neo-collateralismo è molto elevato. Così come è elevato il rischio che le ACLI vivano una nuova stagione di divisioni interne fra chi ritiene che l’Associazione sia naturalmente collocata nell’orbita del PD e chi ritiene invece che lo sia più propriamente collocata nell’orbita del Centro. Non si tratta di scegliere salomonicamente di non stare ne con l’uno ne con l’altro, ma si tratta di rivisitare principi e valori consolidati nella nostra storia e contribuire attivamente a ridare credibilità alla politica e alle associazioni.
Le Acli non sono importanti solo perchè riescono a collocare un numero significativo di loro militanti o di dirigenti in politica, o per l’azione di lobbing che riescono a fare verso le istituzioni, ma perché possono essere riconosciute per la loro autorevolezza, per la capacità di rappresentare gli strati sociali a cui si rivolgono, di interpretare i loro bisogni, di ricercare le soluzioni ai loro problemi, per la diffusione della loro presenza sul territorio, per l’influenza culturale che possono avere per costruire una coscienza e un’etica civile.
Per ottenere questi risultati e per costruire un proprio contributo originale alla vita della polis è necessario che ogni militante e ogni dirigente sia geloso della propria autonomia e di quella dell’intera Associazione in ogni direzione. Ciò significa che l’autonomia non può valere solo per alcuni e solo verso quelle forze politiche meno gradite. Basterebbe la constatazione della fluidità del sistema politico per sollecitare un supplemento di cautela e di attenzione e riaffermare con più forza l’esigenza dell’autonomia. Non bastano le enunciazioni in tal senso ma è necessaria una pratica costante e quotidiana volta a non mutuare posizioni dall’esterno, non farsi ridurre a semplice strumento di trasmissione subalterna di posizioni altrui. Autonomia non significa nemmeno agnosticismo verso la politica, significa piuttosto avere il coraggio di non appaltare a nessuno l’elaborazione e le scelte che l’azione politica ci impongono, avere l’ambizione che, a partire dalle proprie profonde convinzioni e dai valori in cui si crede, attraverso un’elaborazione originale, sia possibile produrre politica vera.
Se l’Associazione diventa la proiezione di un partito o instaura con esso un rapporto collaterale o subalterno le potenzialità di analisi e di proposta, la capacità di comprensione della realtà, la penetrazione che si può avere nell’opinione pubblica ne risultano fortemente limitati, le risorse interne e la crescita culturale e politica mortificate.
La relazione ineludibile e costruttiva che deve essere intrapresa con le forze politiche è tanto più efficace quanto più si basa sulla capacità di confronto sui contenuti più che sulle appartenenze. Per questo la conoscenza e la professionalità di militanti e dirigenti riveste un ruolo strategico ed è garanzia di autonomia dell’associazione.
Non è mai inutile ricordare la considerazione e l’attenzione che i padri costituenti dedicarono ai corpi intermedi. La consapevolezza del ruolo di irrobustimento della democrazia svolto dalle associazioni di rappresentanza è andato via via sfumandosi, pensando che l’unico luogo in cui si esercita la democrazia sia nelle assemblee elettive. I recenti esempi di quei sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro che si sono resi subalterni alle forze politiche e ai governi, testimoniano che i loro rappresentati hanno vissuto tali comportamenti come un tradimento delle loro aspettative, l’efficacia del loro ruolo si è affievolita, inconsciamente hanno contribuito al declino della credibilità loro, della politica e indebolito la fiducia nel metodo democratico.

Le ACLI, in coerenza con l’insegnamento sociale della Chiesa sono state nella loro storia garanti delle libertà individuali. Se questo principio vale sul piano generale a maggior ragione vale quando si tratta di la libertà individuale nella scelta della formazione politica a cui si ritiene di aderire. Ciò vale per tutti per i dirigenti, i militanti, gli iscritti. L’uscita dei dirigenti che ritengono di dedicarsi alla politica costituisce un passaggio delicato per l’intera Associazione la quale deve essere messa in grado di proseguire con normalità nella propria missione, garantendo una adeguata successione democratica e posta al riparo da possibili strumentalizzazioni di ogni tipo.

Molti sono i militanti e i dirigenti delle ACLI che dopo un periodo di impegno nell’associazione decidono di lasciarla per completare la propria esperienza con un impegno diretto nelle istituzioni. E’ auspicabile che la selezione del personale politico, ad opera dei partiti, a differenza di quanto è accaduto nel recente passato ove abbiamo assistito a vicende irripetibili, sia sempre più basata sulle capacità, sulle convinzioni, sulla moralità, sull’onestà, sul senso dello stato e delle istituzioni, sulla capacità di rappresentare e interpretare i bisogni degli strati sociali di riferimento, e non esclusivamente per la loro appartenenza. In questo senso le ACLI ritengono di avere le carte in regola e di poter dare un contributo di persone che saranno in grado di testimoniare, nei ruoli che saranno chiamati a ricoprire, i valori, le competenze, che si sono sedimentate per anni nell’associazione.

I nostri militanti hanno imparato a svolgere l’attività sociale e politica perché l’hanno concepita sempre come servizio, all’insegna della gratuità, della dedizione al bene comune, dell’attenzione ai più deboli. Le esperienze venute alla luce nel recente passato ci dicono che possiamo offrire un patrimonio inestimabile per ridare credibilità alla politica.

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