Un nuovo futuro per le province
La realtà non finisce mai di smentire quei pochi che nella società dell’informazione innescano intense campagne di stampa a sostegno degli interessi dei poteri che servono. Dopo aver assistito per anni al dileggio di comunità montane, piccoli comuni e province si è costretti a prendere atto che il mancato riordino delle province, causato dalle ultime vicende politiche e parlamentari, è particolarmente dispiaciuto proprio a coloro che più hanno lavorato in questi mesi alla loro riforma, prima fra tutti l’Upi, l’associazione delle province.
La gara all’abolizione degli enti più prossimi ai cittadini è lo specchio del deficit di rappresentanza che ha segnato l’esperienza di una seconda repubblica da cui si fa fatica ad uscire. Un Paese nel quale dal 1994 in avanti i ceti intermedi e lavoratori hanno perso gran parte della loro capacità di influenza sulla politica. Un Paese dai diecimila campanili ma capace ancor oggi di realizzare delle filiere produttive fra le più resistenti al mondo. L’Italia dei paesini e dei borghi ricchi di storia e di cultura come non lo sono intere grandi nazioni, l’Italia delle cento province senza le quali non esisterebbero le grandi aree urbane e non avrebbe senso parlare di regioni, si ritrova pesantemente sotto-rappresentata, sebbene in questa Italia d’en bas vivano almeno i tre quarti della popolazione.
Ora che le circostanze politiche hanno passato al nuovo governo che uscirà dal voto della prossima primavera, il compito di una seria riforma delle province nell’ambito di un più ampio riordino istituzionale ed amministrativo dello stato da condurre alla luce dei principi della Costituzione e riparando il Titolo V dallo scempio che ha subito con la sua riforma, vale la pena di ricordare alcuni fatti.
Posto che la razionalizzazione delle spese e la buona amministrazione costituiscono una priorità per tutti, tanto nel settore pubblico che in quello privato, tanto per le istituzioni che per le organizzazioni sociali di ogni tipo – ed in ciò consiste l’eredità migliore del governo Monti che volge al termine – , non sono accettabili due operazioni.
La prima è quella di scaricare la revisione della spesa solo o prevalentemente sugli Enti Locali, che concorrono appena al 45% della spesa pubblica complessiva e senza i quali non è pensabile uno stato sociale a diffusione capillare e neanche un ruolo trainante del privato sociale e del terzo settore.
La seconda è quella della abolizione indiscriminata del maggior numero di Istituzioni locali in ragione del loro costo. La piramide andrebbe un poco rovesciata ed allora si vedrebbero i tagli ancora possibili, in uno spirito volto a rafforzare l’autorità dello Stato e non alla sua disgregazione, nell’organizzazione più efficiente dell’amministrazione centrale, nel disboscamento delle authorities in nome di una azione di governo che non intende limitarsi all’arbitraggio, nelle spese militari, nella diplomazia, nello scioglimento dei contratti-truffa di derivati negli enti pubblici che la Corte dei Conti ha stimato in un costo di complessivo di 90 miliardi, ecc.
Ma per adempiere a questo compito il governo che verrà nella prossima legislatura dovrà avere chiaro un disegno. È auspicabile che questo disegno contempli la sussidiarietà delegando tutto il potere e le risorse possibili al livello di governo più prossimo ai cittadini.
È evidente che il principale intoppo a questo progetto sono le regioni nelle svariate deformazioni che hanno assunto nella seconda repubblica e con l’elezione diretta di presidenti sedicenti “governatori” che costituiscono un pericolo potenziale all’unità nazionale. Le province e le nuove aree metropolitane, ridotte nel loro numero e necessariamente elette dai cittadini, a questo servono: costituiscono la forma più economica ed efficiente di aggregazione dei comuni per i compiti che essi non possono esercitare singolarmente, e costituiscono il più forte antidoto alla logica centralista che si è manifestata nelle regioni nelle quali si sono fermate e talora malamente dissipate, come emerge dalle recenti inchieste giudiziarie, risorse che non hanno mai trovato la strada che le avrebbe allocate per lo sviluppo del territorio.
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