Il passo d’addio
Non c’è dubbio che la “declaratio” con cui l’11 febbraio, di fronte ad un attonito Concistoro, Papa Benedetto XVI ha annunciato la rinuncia al ministero di Vescovo di Roma e di Pontefice della Chiesa universale abbia causato un senso di disorientamento se non di sconvolgimento che va ben oltre i confini del cattolicesimo.
Naturalmente lo stesso Joseph Ratzinger, da cardinale e da Papa , aveva affacciato tale possibilità, del resto esplicitamente prevista dal Codice di diritto canonico, constatando come all’allungarsi della possibilità di vita non sempre faccia riscontro il mantenimento della lucidità intellettuale e della forza fisica che sono connesse all’altissimo ufficio di leader religioso e di Capo di Stato che sono connaturati al munus petrino.
Ciò evidentemente è lasciato al libero apprezzamento del Papa, che non deve “rassegnare le dimissioni“ a nessuno, ma solo davanti a Dio e alla sua coscienza può giudicare delle condizioni in cui svolge il suo ministero. D’altro canto, è probabile che la diretta esperienza di taluni episodi poco edificanti accaduti durante la lunga agonia di Giovanni Paolo II (persino il giorno in cui morì comparvero degli atti di nomina firmati da lui, quando era evidente che da tempo aveva perduto la capacità di cognizione di quanto gli accadeva intorno) abbia determinato in Papa Benedetto la volontà di non giungere mai a quel punto.
Ma c’è forse una ragione più profonda che ha portato alla conclusione di questa esperienza pontificale sul cui significato più profondo occorrerà riflettere, e che va oltre la semplice percezione delle forze che vengono meno da parte di un uomo di 86 anni. Come è noto, all’atto della sua assunzione al Soglio di Pietro il Papa tedesco aveva detto di “non avere nessun programma se non quello di fare la volontà del Signore”. Ma, come è ovvio, la volontà del Signore si manifesta in forma diversa per chi crede, a seconda della particolare sensibilità con cui viene filtrata la percezione del mondo che ci circonda e del compito della Chiesa all’interno di esso.
Di Ratzinger si è parlato come di un “pentito” del Concilio, ma la definizione è sbagliata ed ingenerosa: la coscienza della centralità dell’evento conciliare nella vita della Chiesa del XX secolo non lo ha mai abbandonato, e il famoso discorso alla Curia romana per il Natale del 2005 che a molti osservatori corrivi sembrò il definitivo “requiem” per lo spirito conciliare rappresentava invece per il Papa neoeletto il massimo riconoscimento possibile del valore di quell’assise. In sostanza egli affermava tre cose: a) che il Concilio Vaticano II era –in ogni sua parte – elemento integrante della Tradizione ecclesiale, e che quindi ogni opposizione fra Concilio e Tradizione era operazione scorretta e fuorviante; b) che quindi ogni “ermeneutica della rottura”, che intendesse cioè il Vaticano II come cesura fra un “prima” e un “dopo” della Chiesa (lettura che, ricordiamocelo, era stata accreditata dai tradizionalisti alla Lefebvre prima ancora che dai “progressisti”) era abusiva; c) che per conseguenza l’unica ermeneutica possibile era quella della “riforma nella continuità” (non della “continuità” tout court come volle accreditare qualche furbastro, ecclesiastico e non).
Si può convenire o meno con questa interpretazione, ma è difficile dire che si tratti di quella di un reazionario: piuttosto si può parlare di conservazione, a condizione di dare a questa parola il suo significato specifico, che è quello di “serbare”, di custodire, di mantenere un tesoro – quello della Rivelazione divina così come si è manifestata nei secoli attraverso la mediazione della Chiesa immersa nella storia degli uomini – che non le appartiene, che la trascende, e che si accresce e si modifica nelle diverse forme storiche che concretamente si rendono necessarie.
Forse in questo senso va spiegato il rapporto tormentato che Ratzinger, da Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede prima e da Papa poi, ha mantenuto con lo scottante dossier della Fraternità di San Pio X fondata da mons. Marcel Lefebvre. A lui infatti Giovanni Paolo II affidò le febbrili negoziazioni con il Vescovo francese già sospeso a divinis da Paolo VI per evitare lo scisma implicito rappresentato dalle quattro ordinazioni episcopali senza permesso che poi vennero effettivamente perpetrate nel 1988 causando la scomunica di Lefebvre stesso e dei quattro neo consacrati. In quella circostanza il card. Ratzinger poté percepire il carico della malafede e dell’ottusa ostinazione di Lefebvre e dei suoi, vivendo l’intera vicenda come una sconfitta della Chiesa e sua personale.
E tuttavia, sebbene la scomunica avesse ragioni di carattere principalmente disciplinare, non avevano torto i Gesuiti della “Civiltà cattolica” quando , a commento della vicenda, scrissero che in realtà lo scisma aveva anche motivazioni dottrinali, e quindi vi era da parte degli ultra tradizionalisti una posizione di carattere eretico. Quando Benedetto XVI, da Papa, riprese in mano la vicenda ponendosi l’obiettivo di chiudere senz’altro lo scisma e contando su di una maggiore cedevolezza dei successori di Lefebvre, forse non si rese conto fino in fondo di quanto profonda fosse la rottura: in effetti a tutte le concessioni fatte nei confronti dei tradizionalisti – liberalizzazione del Rito tridentino della Messa, revoca delle scomuniche… – non ha fatto riscontro da parte di Econe la minima, reale disponibilità , se si esclude l’autoesclusione dalla Fraternità dello sciocco Williamson (il cui rumoroso antisemitismo, va notato, non è un’eccezione, ma una regola largamente praticata da tutti i tradizionalisti , siano o meno in comunione formale con Roma). La Fraternità continua a volere quello che il suo fondatore volle fin dal primo giorno: il ripudio in blocco del Vaticano II, il ritorno al 1958 (anno della morte di Pio XII) in termini di liturgia, di disciplina ecclesiastica, di ideologia della presenza sociale della Chiesa. Giunti a questo punto, ha constatato il nuovo Prefetto della Dottrina della Fede mons. Gerhard Muller, appare inutile andare avanti nei colloqui e nelle trattative.
E tuttavia anche questa sconfitta, che certo ha pesato molto su Benedetto XVI, può essere utile se avvierà la Chiesa, a partire dai cardinali riuniti in Conclave, su nuove strade di riflessione, a partire da quella espressa migliaia di anni fa dal profeta Elia ai riottosi Israeliti : “fino a quando continuerete a zoppicare su due gambe?”. In sostanza, è possibile, anche nella logica della riforma nella continuità, pensare di poter patteggiare con chi non vuole riforme e la continuità la interpreta a modo suo? E più in generale è possibile concepire l’esercizio dell’autorità nella Chiesa secondo schemi sempre meno comprensibili alla realtà sociale in cui la Chiesa stessa vive, come se la “cittadinanza paradossale” del cristiano non fosse quella fra il regno dell’uomo e quello di Dio ma fra un sistema democratico e uno di monarchia assoluta?
Lo stesso Ratzinger, in un testo scritto a quattro mani con un teologo laico tedesco nel 1970 (e ripubblicato alla vigilia della sua elezione al pontificato, segno che non lo aveva rinnegato) aveva affermato che, pur apparendo imprecisa ed esuberante, la richiesta di “democrazia nella Chiesa” poneva un’istanza reale, come del resto quella sancita in sede conciliare della collegialità nell’esercizio del ministero episcopale. Si vede così che gli stimoli che venivano da importanti figure come Giuseppe Dossetti o il cardinale Carlo Maria Martini non erano campate per aria né erano le speculazioni oziose di menti sovversive: si trattava invece delle preoccupazioni di uomini di Dio mossi da un sincero amore per la Chiesa, ed in fondo la rinuncia di Benedetto XVI è il riconoscimento della demitizzazione della figura del Pontefice, sempre meno legata all’immagine idolatrica che venne costruita negli anni dell’ultramontanismo e dell’intransigentismo in una logica puramente difensiva rispetto alla modernità e sempre più legata alla dimensione del pastore che “presiede all’universale carità”, spogliatosi progressivamente di quegli orpelli monarchici che sempre meno appaiono convenienti a chi si vuole Vicario del Dio crocifisso e Successore di un pescatore galileo.
Se così fosse, dovremmo guardare al gesto di Benedetto XVI come al suo estremo e più prezioso servizio reso alla Chiesa che ha amato per tutta la sua vita.
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