La laicità difficile

E’passato qualche mese dall’allocuzione della vigilia di Sant’Ambrogio del card. Angelo Scola, che ha suscitato un certo scalpore per i suoi riferimenti alla tematica complessa della laicità dello Stato nella postmodernità, e che a molti è sembrata più una lezione di tipo universitario che un messaggio di ordine pastorale come nella tradizione inaugurata dal card. Giovanni Colombo e poi proseguita dai cardinali Martini e Tettamanzi.

L’assenza di un riferimento pastorale diretto nell’intervento del Cardinale segnala la situazione peculiare di un presule che, rimanendo tuttora estraneo alla realtà in cui è stato inviato, ed avendo , a settantun anni compiuti, un arco di governo pastorale presumibilmente non più lungo di quattro/sei anni (assai meno non solo dei ventidue anni di Martini, ma anche dei nove di Tettamanzi) , deve qualificare la sua presenza altrimenti, ossia nell’affermazione di un peculiare profilo culturale e teologico, che lo distingua dai predecessori ma nello stesso tempo non appaia troppo debitore dell’ imprinting ciellino che a Milano e nel resto dell’orbe cattolico, non per tutti è un marchio di qualità. Peraltro, il venir meno dell’ipotesi di un’elezione al pontificato può darsi spinga ora Scola a definire meglio il suo profilo pastorale, come accadde a Tettamanzi dopo il Conclave del 2005.

Nel frattempo, il card. Scola ha ampliato il suo testo trasformandolo in un libro intitolato “Non dimentichiamoci di Dio”, presentato ufficialmente a Milano il 16 aprile, nel quale le tesi esposte a dicembre sono state sostanzialmente confermate e riargomentate.

Poscia che Costantin l’aquila volse…”

Il discorso di Sant’Ambrogio è stato intitolato “L’editto di Milano- Initium libertatis” nell’ imminenza appunto delle celebrazioni per il millesettecentesimo anniversario dell’ emanazione, ad opera degli imperatori Costantino e Licinio del cosiddetto “Editto di Milano” (313) che sancì ufficialmente la fine delle persecuzioni religiose contro i cristiani. Il Cardinale, mettendo in relazione quell’evento di millesettecento anni fa con la dichiarazione del Concilio Vaticano II Dignitatis humanae sulla libertà religiosa ha parlato dell’ Editto di Milano come di un “inizio mancato”1, alludendo così alla difficoltà con cui venne vissuta a partire da allora la duplice dimensione della libertà religiosa e della laicità dello Stato, che egli stesso definisce “aspetti decisivi per la buona organizzazione della società politica”.

E’ forse un po’disinvolto fissare come punti di riferimento storico l’Editto costantiniano (313) e la dichiarazione conciliare (1965), come se nel frattempo nulla fosse accaduto nel rapporto fra Stato e Chiesa e nel rapporto fra convinzioni religiose e coscienza dei singoli.

D’altro canto, come ha precisato Giovanni Filoramo nel suo libro “La corce e il potere” (2012)  che ad oggi rimane la più esaustiva e convincente ricostruzione dell’eredità costantiniana, i due Imperatori non avevano inventato nulla ma semplicemente richiamarono in vita un precedente editto di tolleranza del loro predecessore Galerio, aggiungendovi la restituzione dei beni alla Chiesa e a coloro che erano stati perseguitati sotto Diocleziano. Filoramo dimostra che il progressivo interesse di Costantino per il cristianesimo era sostanzialmente sincero, sia per l’influenza della madre Elena sia per il controverso episodio della visione che avrebbe preceduto la battaglia di Ponte Milvio sia, soprattutto, per la constatazione che il cristianesimo, pur minoritario (si calcola che all’epoca esso annoverasse a malapena il 10% della popolazione dell’ Impero), fosse la religione ascendente, quella che ormai dilagava fra gli alti gradi della burocrazia, dell’intellettualità e dell’aristocrazia, e ciò pur subendo il discredito della propaganda ufficiale che chiamava i cristiani “atei” e “nemici dello Stato”.

Progressivamente, la pretesa veritativa che il cristianesimo condivide con qualsiasi altra religione, e la necessità di fornirne una visione oggettiva che fosse inattaccabile dall’esterno, convinse gli Imperatori cristiani della necessità di legare la posizione della Chiesa a quella dello Stato, mentre dal canto loro i Vescovi più intelligenti ed attivi, come Ambrogio di Milano, cogliendo la debolezza progressiva della struttura imperiale, intervenivano sempre più spesso al fine di puntualizzare la sottoposizione del potere temporale a quello spirituale.

In questo senso emblematica è la figura di Teodosio, l’ultimo sovrano ad avere avuto dominio sull’intero territorio imperiale prima della formalizzazione della divisione fra Occidente ed Oriente. Cristiano fervente, egli fu sottoposto da Ambrogio ad un’inaudita umiliazione dopo i fatti di Tessalonica del 390 quando dovette sottoporsi a pubblica penitenza per essere riammesso nella comunione ecclesiale: nello stesso tempo Teodosio fu anche l’autore del famoso Editto che nel 381 aveva riconosciuto la fede nel Dio trinitario sancita dal Concilio di Nicea come l’unica vera, di fatto respingendo l’arianesimo nella categoria dell’eresia, ed aveva parimenti avviato la messa fuori legge degli antichi culti pagani e a praticare le prime discriminazioni contro gli Ebrei.

Ciò non significava ancora, nelle controversie interne al cristianesimo, la criminalizzazione e la persecuzione dell’eretico, ed il primo caso di uccisione di una persona per le sue opinioni religiose a seguito di un giudizio formale ( e non quindi a seguito di disordini di piazza) fu quella del Vescovo iberico Priscilliano , fatto decapitare nel 385 con l’accusa generica di stregoneria: si trattò in realtà di un gesto politico compiuto da Magno Massimo, un usurpatore che dominava all’epoca sulle province occidentali dell’Impero e che voleva ingraziarsi gli altri Vescovi di Spagna, e tale gesto venne deplorato, se non altro sotto il profilo procedurale, da figure come Martino di Tours e lo stesso Ambrogio.

Tuttavia in qualche modo una strada era stata aperta, e dopo di allora divenne normale l’appello al potere temporale da parte di quello spirituale nei confronti dell’eresia, così come divenne naturale che alla fede del sovrano dovesse corrispondere quella del popolo, ben prima che la pace di Westfalia sancisse il principio che è stato codificato nella formula cuius regio eius et religio.

Gli sviluppi di una dottrina

Dal punto di vista della Chiesa cattolica la questione dell’adesione privata e dello statuto pubblico della fede era ben chiara: da un lato l’adesione all’unica vera fede doveva essere piena ed incondizionata, derivante da intimo convincimento della coscienza, senza alcuna forma di costrizione pubblica o privata nei confronti del singolo. Dall’altro lato, essendo la religione cristiana nella versione cattolica l’unica vera, chi non vi aderisse doveva avere uno statuto di cittadinanza inferiore rispetto a quello dei cattolici, con gravi limitazioni che potevano avere risvolti umilianti (come nel caso degli Ebrei) o che, nel caso dei cristiani di altre confessioni, comportava notevoli limitazioni alla libertà di culto e alla propaganda religiosa.

Naturalmente questo atteggiamento non era ristretto solo alla Chiesa cattolica, e le stesse confessioni protestanti, laddove si strutturavano come Chiese nazionali, chiedevano il medesimo trattamento per i dissidenti. In questo senso, l’atteggiamento paradossale della Gerarchia ecclesiastica stava nel reclamare la libertà religiosa nei luoghi in cui si trovava in minoranza e nel pretendere di limitarla là dove era maggioritaria.

Lo schema saltò a seguito della Rivoluzione francese, che in nome dell’ideologia illuministica abolì le discriminazioni religiose ancora esistenti nell’affermazione dei diritti universali degli esseri umani: in verità, anche in considerazione dell’atteggiamento del potere ecclesiastico, la Rivoluzione prese un’immediata torsione antireligiosa, che andò dall’imposizione del giuramento di fedeltà del clero alla Costituzione al tentativo di scristianizzazione forzata da parte di alcuni settori giacobini -e l’affermazione del culto dell’Essere supremo da parte di Robespierre fu , contrariamente a quel che si crede, un tentativo per moderare gli eccessi di un ateismo che egli non condivideva , al punto che fu lui a far incarcerare il marchese De Sade, reclamandone invano la condanna a morte, ed ottenendo invece quella degli ateisti e scristianizzatori Hebert e Chaumette – fino ai Concordati-capestro ideati da Napoleone.

Alexis de Tocqueville, scrivendo una generazione dopo nel suo “L’Antico Regime e la Rivoluzione”, affermò di non credere che lo scopo reale della Rivoluzione fosse quello di distruggere la religione, anzi egli opinava che il sostrato antireligioso dell’ideologia illuministica fosse la parte transeunte di quella filosofia, e che “il cristianesimo aveva suscitato questi odi furibondi non tanto come dottrina religiosa quanto come istituzione politica; non perché i preti pretendevano regolare le cose dell’altro mondo, ma perché erano proprietari, signori, amministratori e riscuotevano decime in questo”, ed osservò anche che dopo la Rivoluzione la vita religiosa delle varie confessioni cristiane era risorta ancora più forte. E in effetti, una delle conseguenze della Rivoluzione e dell’epopea napoleonica sulla Chiesa francese fu la distruzione di ogni residuo di gallicanesimo ed il recupero di un più stretto legame con la Sede romana. Allo stesso modo, l’effetto della pratica separazione fra Chiesa e Stato che si produsse con l’Unità di Italia in particolare dopo Porta Pia fu l’eliminazione di ogni residua forma di giurisdizionalismo, ovvero di intromissione dei sovrani temporali nella scelta dei Vescovi e nelle questioni di governo della Chiesa.

In Italia meno che altrove, tuttavia, la Chiesa cattolica era disposta a recedere dalle sue pretese di assolutezza, e quando Pio XI ricevette Mussolini al termine della “crisi dell’Azione cattolica” nel 1932, ebbe a lamentare che il fatto che si fosse passati dalla concezione dei “culti tollerati” a quella dei “culti ammessi”, e che questo producesse “un contegno audace” dei protestanti. Peraltro, è da dire che la Chiesa non comprese la natura reale dei totalitarismi del XX secolo se non a posteriori, e se la condanna del marxismo fu pronta in ragione delle sue radici dichiaratamente ateistiche, nei confronti dei diversi modelli di fascismo vi fu più di un’incomprensione se non una vera e propria compiacenza, dovuta essenzialmente al fatto che nell’agone pubblico la Chiesa difendeva essenzialmente i “suoi” diritti, e nella democrazia non vedeva che una delle possibili forme di governo, mettendo le proprie preferenze, per l’appunto, in relazione ai propri interessi. Solo voci marginali – Sturzo, Mazzolari, Maritain, Mounier…- rimasero a difendere una concezione più aperta e dinamica del ruolo dei credenti nella storia, e sebbene sia errato affermare che vi fosse totale coincidenza fra le posizioni delle dittature fasciste (specialmente quelle italiana e tedesca) e quelle della Chiesa cattolica, è senz’altro vero che né da parte della Santa Sede né da parte delle Gerarchie nazionali venne mai una condanna sistematica di tali ideologie .

Nella fase postbellica la Gerarchia ecclesiastica iniziò lentamente a riconsiderare il ruolo della democrazia come bene comune, ed anzi come parte integrante dell’insegnamento sociale cattolico, sebbene una volta di più da parte di alcuni settori vaticani vi fosse la tentazione di “dettare la linea” ai costituenti democristiani nella costruzione del percorso costituente, soprattutto per quanto riguardava l’inserimento dei Patti Lateranensi (stipulati in regime fascista e quindi improntati ad una mentalità non democratica) nel testo costituzionale e tutta una serie di garanzie in materia di matrimonio, scuola e beni ecclesiastici. Ci vollero la forza morale e la tempra politica di credenti come Alcide De Gasperi e Giuseppe Dossetti se tali tendenze clericali non prevalsero, ed anzi trovarono un’ argine, sia pure non dichiarato nella prassi politica democristiana, creando il paradosso per cui in un sistema politico bloccato toccò ad un partito di ispirazione cristiana gestire il percorso di secolarizzazione della Nazione che ospitava la sede della Chiesa cattolica.

Gli argomenti del Cardinale

In questo scenario, quali sono le argomentazioni del card. Scola che tanto clamore hanno suscitato? Il Cardinale esordisce subito che “le due dimensioni che oggi chiamiamo “libertà religiosa” e“laicità dello Stato” sono due aspetti decisivi per la buona organizzazione della società politica.”, e che la commistione fra religione e politica è “indebita”. Egli mette in relazione il documento costantiniano con la Dichiarazione del Concilio Vaticano II “Dignitatis humanae” sulla libertà religiosa che per la prima volta riconosceva, da parte ecclesiastica, il diritto soggettivo della persona ad aderire o non aderire alla Verità rivelata .

Il Concilio,- annota Scola– alla luce della retta ragione confermata e illuminata dalla divina rivelazione, ha affermato che l’uomo ha diritto a non essere costretto ad agire contro la sua coscienza e a non essere impedito ad agire in conformità con essa.”

Tuttavia, afferma il Cardinale, l’atteggiamento dello Stato moderno verso la religione “si basa sull’idea dell’in-differenza, definita come “neutralità”, delleistituzioni statuali rispetto al fenomeno religioso e per questo si presenta a prima vista come idoneo a costruire un ambito favorevole alla libertà religiosa di tutti. Si tratta di una concezione ormai assai diffusa nella cultura giuridica e politica europea, in cui però, a ben vedere, le categorie di libertà religiosa e della cosiddetta “neutralità” dello Stato sono andate sempre più sovrapponendosi,finendo così per confondersi. Nei fatti, per vari motivi ad un tempo di carattere teorico e storico, la laicité alla francese ha finito per diventare un modello maldisposto verso il fenomeno religioso.
Perché? Anzitutto, l’idea stessa di “neutralità” si è rivelata assai problematica, soprattutto perché
essa non è applicabile alla società civile la cui precedenza lo Stato deve sempre rispettare,limitandosi a governarla e non pretendendo di gestirla. Ora, rispettare la società civile implica riconoscere un dato obiettivo: oggi nelle società civili occidentali, soprattutto europee, le divisioni più profonde sono quelle tra cultura secolarista e fenomeno religioso, e non – come spesso invece erroneamente si pensa – tra credenti di diverse fedi. Misconoscendo questo dato, la giusta e necessaria aconfessionalità dello Stato ha finito per dissimulare, sotto l’idea di “neutralità”, il sostegno dello Stato ad una visione del mondo che poggia sull’idea secolare e senza Dio. Ma questa è una tra le varie visioni culturali (etiche “sostantive”) che abitano la società plurale. In tal modo lo Stato cosiddetto “neutrale”, lungi dall’essere tale fa propria una specifica cultura, quella secolarista, che attraverso la legislazione diviene cultura dominante e finisce per esercitare un potere negativo nei confronti delle altre identità, soprattutto quelle religiose, presenti nelle società civili tendendo ad emarginarle, se non espellendole dall’ambito pubblico. Lo Stato, sostituendosi alla società civile, scivola, anche se in maniera preterintenzionale, verso quella posizione fondativa che la laicité intendeva rigettare, un tempo occupata dal “religioso”. Sotto una parvenza di neutralità e oggettività delle leggi, si cela e si diffonde – almeno nei fatti – una cultura fortemente connotata da una visione secolarizzata dell’uomo e del mondo, priva di apertura al trascendente. In una società plurale essa è in se stessa legittima ma solo come una tra le altre. Se però lo Stato la fa propria finisce inevitabilmente per limitare la libertà religiosa.”

La lunga citazione precedente serve a chiarire il fulcro polemico dell’argomentazione del Cardinale – che del resto ha mutuato dal suo maestro don Giussani la convinzione che ogni posizione derivi dall’ opposizione- il quale evidentemente ritiene che la neutralità dello Stato nelle vicende religiose alla fine sia solo il paravento di una pratica irreligiosità, di un secolarismo inteso come minimo comun denominatore possibile.

A ciò egli oppone – per l’appunto – la visione di uno Stato che “senza far propria una specifica visione, non interpreti la sua aconfessionalità come “distacco”, come una impossibile neutralizzazione delle mondovisioni che si esprimono nella società civile, ma che apra spazi in cui ciascun soggetto personale e sociale possa portare il proprio contributo all’edificazione del bene comune”.

Non si tratterebbe quindi, come hanno sostenuto alcuni critici affrettati, della riproposizione della confessionalità dello Stato, ma della configurazione di un nuovo modello di statualità in cui le diverse opzioni culturali e religiose si confrontino liberamente nella definizione di un percorso in cui” i soggetti personali e sociali che abitano la società civile devono narrarsi e lasciarsi narrare tesi ad un reciproco, ordinato riconoscimento in vista del bene di tutti.”.

La tesi è suggestiva, ma presenta più di un punto debole, a partire proprio dalla soluzione proposta: come si ottiene la “reciproca narrazione” fra i soggetti che abitano lo spazio pubblico, religioni comprese? E, in sostanza, chi definisce le regole di questo spazio pubblico? Non ha torto in effetti il giurista Nicola Colaianni quando afferma che nella complessa architettura del discorso di Scola il grande assente è proprio il diritto, a partire dalla fonte normativa più alta, la Costituzione. E’ come cioè se l’Arcivescovo di Milano concepisse una situazione in cui il potere politico e la società si confrontano senza l’intermediazione del dettato costituzionale e del complesso delle norme giuridiche, ad esso sottordinate, che fra le altre cose definiscono il quadro dei rapporti fra confessioni religiose e Stato (il cosiddetto diritto ecclesiastico) e le forme della partecipazione delle diverse istanze culturali alla formazione del dibattito pubblico. In tal modo, egli dimentica che il principio di laicità vigente nel nostro ordinamento è quello definito nel 1989 da una capitale sentenza della Corte costituzionale, che implica “non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni, ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione in regime di pluralismo confessionale e culturale”.

Peraltro, l’implicita opposizione fra il modello giurisdizionale europeo di separazione fra Stato e confessioni religiose e quello statunitense basato sull’idea di “uno Stato che rimanga aconfessionale ma nel quadro di una nuova ‘laicità positiva’ non neutrale di fronte al fatto religioso” , come ricorda il giovane storico Massimo Faggioli, pecca probabilmente di miscomprensione delle diverse realtà storiche da un lato e di anacronismo dall’altro.

Infatti, la Costituzione statunitense – scritta peraltro da uomini imbevuti di cultura illuministica di stampo europeo, spesso aderenti a logge massoniche, e che quando dicevano “Dio” intendevano il Grande Architetto dell’Universo – poté affermarsi in base ad un principio di laicità diverso da quello europeo fu proprio a causa dell’inesistenza di una religione dominante, si trattasse del cattolicesimo dei Paesi latini o delle Chiesa protestanti nazionali di quelli nordici.

I problemi di fondo, a nostro giudizio, sono due: il primo è di natura squisitamente ecclesiale, e lo ha sottolineato con molta finezza nel suo blog proprio un sacerdote ambrosiano, don Cristiano Mauri, scrivendo che “Il fatto che come Chiesa italiana nei confronti delle Istituzioni godiamo di una situazione di favore se non, in alcuni casi, di privilegio credo sia incontestabile. Così innegabile è il peso nei giochi economici e politici che la nostra Chiesa nel tempo ha maturato. E’ altrettanto evidente che la gestione di questi rapporti non è certamente sempre stata esemplare e limpida. E, chi ascolta “la gente comune”, si rende conto con facilità di come proprio questo tema sia frequentemente occasione di scandalo e di allontanamento dalla Chiesa. Quale occasione più propizia dunque della ricorrenza per prendere in mano la questione? Quale opportunità migliore di questa per mettere a tema le commistioni Chiesa-Istituzioni snidandone i compromessi, mettendone in luce gli elementi anti-evangelici, prendendo le distanze da stili e atteggiamenti che rispondono esclusivamente a logiche mondane?(…) E’ vero che i cristiani hanno contribuito a costruire la società democratica, ma pure nei suoi difetti! E non sarebbe tanto più evangelico tacere i propri meriti, preoccupandosi invece di migliorare la società andando a cercare anzitutto nel proprio vissuto le radici di una maggior autenticità?”
Non sono cose nuove: ne aveva già accennato don Milani nelle sue Esperienze pastorali, ma è indubbio che mai come in questi anni vi sia la tendenza ad un revanscismo apologetico laddove sarebbe forse più prudente tacere o nutrire qualche sano dubbio, vista la scarsa qualità della presenza pubblica della Gerarchia ecclesiastica su certi temi specifici. E’ ovvio che finché ogni voce, non si dice dissenziente, ma semplicemente dubbiosa viene immediatamente ripagata con l’irrilevanza se non con l’ostilità, e non si pratica all’interno della Chiesa quella “purificazione della religione da parte della ragione” che lo stesso Benedetto XVI – nella “Cartias in veritate”- considerava necessaria al fine di mostrare il volto umano più autentico di ogni esperienza religiosa, la credibilità della Chiesa ne soffre, come sempre, quando le parole non corrispondono ai fatti, come ha rilevato recentemente Papa Francesco.
La seconda questione ha un carattere più squisitamente politico, non tanto nel senso della politica spicciola quotidiana che ogni giorno ci tedia, ma in quello più alto, in quello fondamentale della relazione fra Stato, società e persona. Abbiamo visto come per il card. Scola lo Stato abbia essenzialmente la funzione di fare da cassa di risonanza alla società civile, “la cui precedenza lo Stato deve sempre rispettare, limitandosi a governarla e non pretendendo di gestirla”.
Il problema è che laddove queste tesi sono state applicate –ad esempio in Regione Lombardia dal 1995 ad oggi- magari utilizzando come salvacondotto l’omnicomprensivo concetto di “sussidiarietà” o trincerandosi dietro slogan tipo “più società meno Stato”, i risultati pratici sono stati tutt’altro che brillanti, andando semmai nel senso di una progressiva privatizzazione strisciante dello spazio pubblico, con la riduzione del bene comune al bene di una parte.
Il fatto è che la politica, per sua natura, rappresenta l’imposizione di un ordine (possibilmente in forma condivisa, se è politica democratica) nel caos degli interessi e delle passioni degli esseri umani. Gli interessi sono razionali, le passioni no, ma ambedue, pur essendo magari legittimi e comunque appartenenti alla natura umana, hanno il difetto di essere unilaterali, confliggenti con altri interessi ed altre passioni e quindi potenzialmente distruttivi della pace e della libertà. Per questo nasce la politica, la quale costituisce il diritto (e qui si aprirebbe la discussione sulla “vexata quaestio” del diritto naturale).
In questo senso suonano assai più realistiche e conformi al senso profondo dell’agire politico le considerazioni che Giuseppe Dossetti sviluppava nel suo famoso discorso ai Giuristi cattolici su “Funzioni e ordinamento dello Stato moderno” nel 1951: “Conseguenza di quanto ora si è detto è la rivendicazione da parte dello Stato di una funzione non solo di mediazione statica tra le forze sociali esistenti, ma di sintesi dinamica, e quindi di reformatio del corpo sociale: non pura mediazione, non puro equilibrio, non puro arbitrato, ma sintesi propulsiva in questo Stato moderno. Lo Stato, abbiamo detto prima, non crea gli uomini e non crea la società, ma fa la società. Data una società con alcune forme primigenie o storicamente cristallizzate, ma che rappresentano ormai un qualcosa di informe rispetto a quello che dovrebbe essere in quel determinato momento storico il compito concreto dell’azione statale, lo Stato deve fare la società, traendo il corpo sociale dall’informe. Accettare questo corpo sociale in alcune realtà incomprimibili, che sono quelle prima dette, ma poi reformare quelle e le altre. Questo richiede un’analisi sociologica che si ponga, in una determinata situazione storica, con una spietata sincerità, con uno smascheramento di tutte le ipocrisie, di tutti i luoghi comuni usati anche in buona fede per la tranquillizzazione della nostra coscienza. L’analisi sociologica che deve essere assunta a base di questa scelta deve essere veramente uno di quei momenti supremi di verità in cui si adempie il nostro dovere cristiano. Solo a questo patto si può, allora, assicurare la genuinità del potere politico, altrimenti si potrebbe dire che questo regna, ma non governa.
Non si tratta qui di contrapporre l’antico costituente e perito conciliare all’Arcivescovo di Milano: si tratta piuttosto di sviluppare un dibattito serio e di sostanza su una questione che riguarda tutti come credenti e, più in generale, come cittadini e che ci accompagnerà ancora per molto tempo, in una fase di incertezza politica ed istituzionale cui fa riscontro, in questo avvio del pontificato di Francesco, quella che pare essere una rinnovata capacità di interlocuzione della Chiesa con gli uomini del nostro tempo.

 

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