Reddito d’inclusione sociale: un diritto non più rinviabile

“La politica italiana è tradizionalmente disattenta verso i poveri”. Con questa constatazione veniva introdotta nel 2010 una ricerca promossa dalle Acli nazionali sulla povertà assoluta in Italia e condotta da un gruppo di studiosi coordinati da Cristiano Gori, docente di Politica sociale alla Cattolica di Milano. Fondata sui dati Istat dell’anno precedente (2009) la ricerca stimava che almeno il 4,7% delle famiglie italiane (circa 1.162.000 nuclei familiari sul totale, per oltre 3 milioni di persone) fosse nella condizione di povertà assoluta, nella quale – detto in estrema sintesi – vengono meno i livelli essenziali di cibo, vestiario, energia. Si trattava prevalentemente di nuclei familiari o molto numerosi o costituiti da una sola persona, con livelli di istruzione per lo più estremamente bassi, concentrati per il 44% nelle regioni del Sud. Allora non ci si limitò a indagare la situazione esistente, ma si propose un piano nazionale contro la povertà assoluta partendo da una riqualificazione della Carta acquisti meglio conosciuta come ‘Social Card’ (introdotta da Tremonti) e che non stava raggiungendo gli scopi fissati a causa dell’esiguità degli aiuti corrisposti e soprattutto dei requisiti di accesso molto restrittivi, tanto che quasi il 50% della cifra stanziata non era stato speso. In particolare la Nuova Social Card proposta aveva: carattere universalistico, destinata a tutti i nuclei residenti in Italia e non solo ai cittadini italiani, purché rientrassero in quelle condizioni di povertà superando alcuni dei limiti restrittivi; triplicava mediamente il contributo finanziario mensile previsto differenziando soglie di accesso e importi in base al differente costo della vita dei territori; affiancava al contributo finanziario la presa in carico da parte dei Servizi sociali locali, attribuendo un ruolo di valutazione e accompagnamento ai Comuni, in collaborazione con il Terzo settore, sia per l’erogazione di servizi alla persona, sia per l’introduzione di processi di formazione e di avviamento al lavoro nelle situazioni in cui fosse utile e possibile. Si trattava quindi di una proposta di contrasto alla povertà che non si limitava a erogare soldi, ma si proponeva di affrontare e risolvere le cause che la determinavano, per superarle portando a nuova dignità le persone. La sua attuazione, da realizzarsi con gradualità nel triennio 2010-2013, era stimata del tutto sostenibile sia sotto il profilo finanziario che quello organizzativo. Non se ne fece nulla; al convegno di presentazione della proposta il Ministro del lavoro di allora, Sacconi, dichiarò non esserci disponibilità e parlò sostanzialmente d’altro. Solo recentemente la proposta è stata in parte ripresa in una sperimentazione avviata dall’attuale Governo limitatamente ad alcune città tra le più popolose in Italia.

Intanto negli anni 2010, 2011 e 2012 la povertà relativa è cresciuta dell’1,7% e quella assoluta del 2,2%, posizionandosi a quota 6,8%, coinvolgendo 1.725.000 nuclei familiari per quasi 5 milioni di persone (pari all’8% dell’intera popolazione). La cifra è impressionante sia per le sue dimensioni, sia per la sua composizione: aumentano infatti i nuclei di tre o quattro componenti, aumentano le persone con livello di istruzione medio-alto e con professionalità elevata. Non è difficile leggere in questi dati l’effetto della recrudescenza della crisi recessiva e dell’inevitabile sbocco di quella ‘vulnerabilità’ sociale data dalla precarietà occupazionale e dal rischio di perdita del lavoro. Si può dunque affermare che, senza forzare la lettura dei dati, in questa situazione il passaggio dall’impoverimento alla povertà sia particolarmente rapido, in particolare per la fascia dei redditi medi e medio bassi nel momento in cui viene meno l’occupazione di uno o più componenti del nucleo familiare. Alle indagini campionarie degli istituti di statistica, le Acli hanno potuto affiancare la prova provata dell’impoverimento e della vulnerabilità di questa fascia sociale elaborando e confrontando le dichiarazioni dei redditi raccolte dai CAF Acli in questi ultimi anni: prima quelli delle ‘ricche’ province milanese e brianzola e poi quelli dell’intero territorio nazionale. Infatti la tipologia dei dichiaranti che si rivolgono al Caf Acli può ampiamente essere ricompresa in quel ‘ceto medio ’, la cui crescita – numerica e di reddito – nella seconda metà del ‘900 ha calmierato le disuguaglianze economiche e sociali. Ora, a distanza di tre anni, la constatazione iniziale sull’indifferenza della politica verso la povertà viene riconfermata. Nonostante un impoverimento e una povertà gravi e dilaganti come non mai dal secondo dopoguerra ad oggi e, nelle previsioni di molti, negli anni futuri, mentre si invocano provvedimenti di riforma strutturale dello stato sociale, si applicano in realtà rimedi contingenti e parziali, incapaci di affrontare e risolvere i problemi alla radice. In questo frangente le ACLI nazionali con la Caritas italiana ripropongono una versione ampliata e aggiornata delle proposte già descritte, rivolgendo un appello di sostegno e coinvolgimento a tutti i soggetti sociali consapevoli della gravità di una situazione che mette gravemente a rischio la vita di persone, la coesione sociale e la stessa convivenza democratica. La nuova proposta, elaborata ancora da un gruppo di esperti coordinati da Cristiano Gori, va oltre la Carta acquisti e chiede l’introduzione di un Reddito d’inclusione sociale (Reis) che dia a tutte le famiglie in povertà assoluta l’equivalente della differenza tra il reddito familiare e la soglia di povertà assoluta determinata dall’Istat, sempre tenendo conto delle differenze territoriali in termini di costo della vita. Oltre al contributo finanziario viene richiesto, con maggior dettaglio, l’affiancamento di servizi e attività per rimuovere tutto ciò che ostacola l’uscita dalla condizione di marginalità, sollecitando al tempo stesso una serie di impegni e doveri personali degli assistiti. Si ripropone che l’intera gestione degli interventi avvenga a livello locale, affidandone ai Comuni la responsabilità e al Terzo settore le funzioni di co-progettazione e realizzazione. Particolarmente importante è la precisazione che fanno i promotori circa gli ambiti di applicazione del Reis, (che sono esclusivamente quelli della povertà assoluta) che non può e non deve farsi carico di altre necessità sociali, sia per una precisa individuazione delle risorse necessarie, sia per non ricadere in forme di assistenzialismo e di abuso non estranee al nostro sistema. Anche la gradualità quadriennale prevista per portare a regime l’applicazione del Reis depone a favore della serietà della proposta, in quanto attuazioni velleitarie farebbero fallire la rivendicazione e l’affermazione di un diritto non più rinviabile. Tale diritto si pone come primo atto di riforma strutturale del Welfare del nostro Paese, in cui, da troppo tempo ormai, vengono spacciati come riforme i tagli alla spesa sociale.

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