La fabbrica del XXI secolo
La strage di lavoratori schiavi arsi vivi nella fabbrica-dormitorio di Prato non può essere catalogata solo come un incidente sul lavoro, seppur di gravi dimensioni. E nemmeno esser messa in relazione con la nazionalità straniera dei titolari e delle maestranze di quella fabbrica. Cose del genere possono accadere perché anche nel nostro Paese ormai vi sono degli spicchi di quella “modernità” che sta rivoluzionando il mondo del lavoro e che, come ha osservato il vescovo di Prato mons. Franco Agostinelli, in realtà assomiglia più ai tempi della prima rivoluzione industriale.
È lì che si rischia di tornare, infatti, quando si deve subire una pressione che dura da decenni per la più ampia deregolamentazione delle esigenze del profitto sulle esigenze di umanità e di costruzione del bene comune. Gli squilibri sociali e del lavoro diventano funzionali ad un sistema economico e finanziario calibrato su una esigua minoranza di ricchi da rendere ancora più ricchi, che per questo obiettivo non dimostra scrupoli nel sacrificare i diritti e gli standard di vita raggiunti dalla classe media occidentale, né di ledere i diritti dei lavoratori dei Paesi emergenti.
Così si fa strada una modernità basata sulla riduzione del costo del lavoro, su una compressione dei diritti del lavoro, che considera il lavoro solo una merce come le altre da andare a reperire dove è più a buon mercato. E che punta lucidamente ad un livellamento verso il basso della condizione dei lavoratori e delle famiglie. Non appena si manifestano dei segnali di cedimento sul versante della dignità del lavoro tali capitali sono pronti a rientrare in gioco. Negli Stati Uniti, ad esempio, nel 2013 si sono avuti dei cenni di una inversione di tendenza nelle delocalizzazioni manifatturiere ritenute non più convenienti dagli investitori a causa del forte calo del costo del lavoro nelle zone degli Usa più colpite dalla crisi. Ed altri capitali sarebbero pronti ad investire (perché il paradosso della crisi è che il mondo è pieno di ricchezza concentrata ed immobilizzata nelle mani di pochissimi operatori globali) se solo i lavoratori americani si dimostrassero pronti ad imitare le nuove concezioni di produzione avviate in Oriente.
Le fabbriche-dormitorio infatti non sono una invenzione cinese, bensì indotta dagli occidentali. Esse rispondono a delle esigenze delle corporation occidentali non solo per il minor costo del lavoro presente in Cina: l’elemento decisivo è un modello produttivo tale da sbaragliare ogni altra opzione di produzione. Avere subito tanti lavoratori quando servono e solo per il tempo che servono e con altrettanta rapidità averne pochi quando non ce n’è bisogno; la velocità e la capacità di adattamento nel rispondere alle richieste del committente. Questi sono gli elementi che fanno la differenza e che necessitano di lavoratori addestrati a rinunciare a dei tempi di vita umani e disposti per salari bassissimi a rimanere internati negli stabilimenti con annesso dormitorio. Un articolo comparso un paio di anni fa sul New York Times, uno dei pochi che abbia creato un po’ di attenzione sul problema, fotografa così la nuova concezione della produzione che si sta affermando all’inizio di questo XXI secolo: «un caposquadra sveglia 8 mila lavoratori che giacciono nei dormitori dell’azienda, a ciascuno di loro viene dato un tè e un biscotto, vengono avviati alle stazioni di lavoro entro mezz’ora e cominciano un turno di lavoro di 12 ore». Il giorno dopo idem, il riposo festivo non esiste e si va avanti così anche se qualche lavoratore crolla o si suicida.
La fabbrica-dormitorio è dunque l’emblema dell’attuale capitalismo dal volto dis-umano e la si contrasta non solo con la repressione ma con una nuova cultura del lavoro. Non si può più stare zitti, come ha affermato Stefano Gelsumini, presidente delle Acli di Prato, commentando quanto successo.
Occorre cambiare il senso di questa competizione globale per volgerla a beneficio dello sviluppo dei popoli, dei lavoratori e delle famiglie e non solo dei pochi che ne traggono profitti esagerati ed ingiusti. Questa è la modernità per cui tutti ci dobbiamo sentire impegnati, da realizzare a partire da interventi concertati a livello locale, nazionale, internazionale, come ha chiesto il capo dello Stato, Giorgio Napolitano.
Dalla società, dalle istituzioni deve partire una mobilitazione per dire basta a questa ricerca del profitto senza più regole, basta al lavoro schiavo e sottopagato e per affermare che il lavoro è per l’uomo, per la famiglia, per una società in cui la dignità della persona umana sia sempre riconosciuta e rispettata in ogni parte del mondo a partire da casa nostra.
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