Un Senato degno del suo nome

 Dopo decenni di false partenze, adesso sulle riforme costituzionali l’approdo finale pare vicino. Se però è vero che alcune modifiche vanno portate a compimento, resta altrettanto vero che non basta farle purchessia, senza i necessari approfondimenti. Osservando cosa accade sul Senato, si scorge un certo pressapochismo e, soprattutto, una dannata fretta di mettere in cassaforte un risultato da sventolare davanti ai cittadini, senza magari avere ben chiaro cosa ne deriverà.

Il punto è proprio questo: le riforme della Costituzione vanno fatte pensando ai decenni che verranno (come si fece nel 1947 in Assemblea costituente) e non alle prossime scadenze elettorali. Altrimenti, tra un paio di anni, saremo nuovamente ad apportarvi altre correzioni, banalizzando le revisioni della Carta o, peggio, ci troveremmo impigliati in regole inadeguate. Un po’ come è accaduto col Titolo V e con lo pseudo-federalismo che ne è seguito.

Quando si parla di Senato vi è l’esigenza, da tutti riconosciuta, di rendere più efficiente il nostro sistema politico, superando il bicameralismo perfetto, un unicum nel panorama europeo. Per farlo occorre: eliminare il raccordo fiduciario col Governo (mantenendolo solo per la Camera) e semplificare il processo legislativo, in modo che l’eventuale voto difforme di palazzo Madama possa esser superato da un secondo responso di Montecitorio, ponendo fine alle interminabili navette, tra i due rami del Parlamento.

Riguardo alle modalità di elezione, il progetto oggi in discussione prevede di passare a un sistema indiretto, con senatori designati dai consigli regionali più ventuno membri scelti dal capo dello Stato. L’elezione indiretta sta però creando notevoli malumori tra le forze politiche e, in fondo, non si capisce perchè si debba rinunciare, a cuor leggero, al voto da parte dei cittadini.

Una via di uscita, per evitare che palazzo Madama sia il doppione di Montecitorio, pur mantenendo l’elezione a suffragio universale, è quella di portare a sette anni la legislatura senatoriale. Così facendo il Senato ne guadagnerebbe in prestigio, risultando assai meno legato alla maggioranza politica contingente (rinnovata ogni cinque anni) e divenendo realmente la sede istituzionale della riflessione legislativa di lungo termine.

Il numero di senatori dovrebbe essere circa duecento, concedendo loro la normale indennità di parlamentari (altrimenti, l’aula si trasformerebbe in un’assise di plutocrati, gli unici in grado di far politica gratuitamente). A quel punto si potrebbe ridurre la Camera dagli attuali 630 a 450 membri.

La composizione del Senato andrebbe suddivisa in due quote. Cento seggi ripartiti su base uguale per tutte le regioni (cinque senatori ciascuna) ed altri sessanta seggi andrebbero invece assegnati in proporzione agli abitanti (uno ogni milione). Così la Lombardia avrebbe altri dieci senatori (oltre ai cinque fissi); Piemonte e Veneto altri quattro, ecc.. , mentre Molise e Valle d’Aosta non godrebbero di alcuna quota aggiuntiva. In definitiva un sistema misto: da una parte si valorizzano le autonomie locali concedendo ad ogni regione lo stesso peso (come avviene con gli Stati nel Senato americano); dall’altra si stabilisce una certa correlazione con la popolazione presente.

Solo al Senato (dove non si vota la fiducia) dovrebbero sedere gli eletti nelle circoscrizioni estere, aumentandone il numero, da sei a dieci membri, di cui uno in rappresentanza della minoranza italiana che vive in Istria. Non certo per alimentare vecchi revanscismi ma a testimonianza di un indissolubile legame con una terra di antiche radici italiane. Cinque senatori a vita, nominati, come oggi, dal Presidente della Repubblica, completerebbero i ranghi di palazzo Madama.

In definitiva, al posto di uno scialbo consesso di nominati dagli enti locali si propone, pur superando il bicameralismo perfetto, di costituire un’assemblea degna di portare un nome, Senato, di nobili ascendenze. Una sede cui affidare, in esclusiva, i rapporti con le autonomie locali e la riscrittura dei codici, e congiuntamente alla Camera, la ratifica dei trattati internazionali, i rapporti con l’Unione europea, le norme sui diritti civili e l’elezione del capo dello Stato.

Un bicameralismo differenziato come durata, composizione ed attribuzioni dei due rami del Parlamento. Un sistema funzionale e rispettoso della nostra migliore tradizione democratica. E a quel punto, già che ci siamo, sarebbe il caso, nella legge elettorale della Camera, di reinserire le preferenze. Ma questo è un altro discorso.

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