La lotta globale per i diritti dei palestinesi
Con il risultato delle ultime elezioni politiche, Israele ha definitivamente gettato la maschera. È questo il giudizio lucido e netto che giunge concordemente da due punti di visti ben distinti, quello dell’artista yiddish Moni Ovadia, di origine ebraica, e quello di Omar Barghouti, intellettuale ed esponente di primo piano della società civile palestinese, animatore del movimento non violento BDS (Boycott, Divestment and Sanctions) di cui ha espresso le linee guida e rivendicazioni nel volume <<Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni – La lotta globale per i diritti dei palestinesi>> (Haymarket Books, 2011).
L’azione del movimento Bds, al quale aderisce ormai larga parte della società civile palestinese e che gode di un crescente supporto internazionale, è ispirata alla lotta condotta in Sudafrica da Nelson Mandela contro il regime di Apartheid imposto dalla minoranza bianca, situazione che presenta molte similitudini con quella dell’attuale condizione dei palestinesi, sottoposti al totale controllo politico, economico e militare del governo israeliano, di fatto potenza occupante di un territorio che, secondo le disposizioni delle Nazioni Unite, avrebbe dovuto diventare lo Stato di Palestina. Una risoluzione ONU che nell’arco degli ultimi decenni non ha mai trovato applicazione, mentre al contrario gli esecutivi di Tel Aviv, in particolare quelli di destra, hanno proseguito con la pratica degli insediamenti “coloniali” illegali, sottraendo ai palestinesi terre e risorse di loro spettanza. Una pratica mascherata da un’imponente opera di propaganda, che ha sempre dipinto la nazione israeliana come faro di civiltà e democrazia circondata e minacciata da Paesi dominati da regimi autoritari e regressivi, confondendo in maniera abile e spregiudicata la religione ebraica e lo Stato di Israele, per sfruttare oltremodo il gigantesco complesso di colpa dell’Occidente, originato dalla tragedia della shoah.
Una tesi clamorosamente smentita dal risultato dell’ultima consultazione elettorale: il premier uscente Netanyahu, sfavorito nei sondaggi, ha ribaltato la situazione promettendo che, in caso di sua vittoria, mai avrebbe permesso la nascita di uno Stato palestinese, ponendosi apertamente in conflitto con quanto stabilito in sede ONU. E ha ottenuto una vittoria eclatante, che sposta ulteriormente il baricentro politico verso la destra ultranazionalista, caratterizzata dall’ortodossia religiosa e dalla volontà di estromettere definitivamente la presenza palestinese da quella che tuttora viene considerata la “Terra Promessa”.
“Si tratta – sostiene Barghouti – di una vittoria dell’apartheid, del razzismo e dell’occupazione, che smaschera il vero volto di Israele, il quale non può più essere considerato una normale democrazia”, un giudizio duro che non risparmia neppure gli sconfitti: “la sinistra-sionista ha le stesse idee, solo una maschera migliore. Ma la stessa definizione è un ossimoro, poiché il sionismo è un’ideologia razzista che non ammette uguali diritti per i palestinesi, atteggiamento inammissibile per una vera sinistra”. Per contro, il movimento a cui appartiene chiede “la fine dell’occupazione israeliana, la fine del regime di apartheid e delle relative discriminazioni che colpiscono i palestinesi residenti, e il diritto al ritorno dei fuoriusciti” sottolineando come questi ultimi “costituiscano la maggioranza, il 50% del totale, a fronte di un 38% che vive nella sovrappopolata Striscia di Gaza o sparpagliato in Cisgiordania, e di un 12% che vive nel resto di Israele con la doppia cittadinanza” e rivendicando per tutti diritti civili fondamentali, come quello all’autodeterminazione dei popoli.
Per portare avanti le proprie rivendicazioni il movimento, che non ha connotazione politica, ha scelto la via della non-violenza e accetta il confronto, ma sostiene la necessità “di boicottare istituzioni, aziende e attività economiche israeliane, tutte a vario titolo coinvolte nelle pratiche di oppressione e colonizzazione che hanno confiscato terre, acqua e risorse ai palestinesi, impedendo loro un normale sviluppo economico, come testimoniato persino dal Financial Times, che ha ripreso la tesi dell’Organizzazione umanitaria Oxfam”. Barghouti sollecita l’appoggio della comunità internazionale, chiamandola a un’azione di pressione globale quale quella che consentì di demolire il regime sudafricano. E smonta pezzo per pezzo i luoghi comuni radicati nell’immaginario collettivo occidentale: “Israele è la capitale mondiale della propaganda, che mente come respira e si assegna meriti inesistenti, dalle grandi invenzioni della storia alla coltivazione dei pomodori ciliegini, presenti naturalmente nella regione ben prima dell’arrivo dei “coloni” israeliani. E del resto – prosegue – anche la Germania ha avuto meriti storici e culturali enormi, ma ciò non ha impedito di contrastare il regime nazista”. Un riferimento duro, per certi versi spiazzante, ma che mostra con estrema chiarezza come i discendenti del popolo più perseguitato della Storia siano diventati oggi a loro volta persecutori, atteggiamento che nessun retaggio o sofferenza subita può giustificare.
Ma sia chiaro, sostiene Barghouti “che in tutto questo non c’è traccia di antisemitismo, che anzi noi condanniamo. E non è neppure in discussione il diritto all’esistenza dello Stato di Israele. Ciò che noi contestiamo sono le politiche colonialiste, razziste e repressive messe in atto dai suoi esecutivi, che sono a tutti gli effetti dei regimi oppressivi nei confronti dei palestinesi. I quali tuttavia non accetteranno mai di essere schiavi e continueranno a lottare per la propria libertà”. Una battaglia – condivisa anche da una parte, evidentemente minoritaria, della popolazione israeliana – per la quale Barghouti sollecita l’appoggio dell’Occidente,sottolineando come la resistenza palestinese sia forzatamente condotta da una posizione di inferiorità economica, militare e politica, ben differente da quella di noi popoli liberi. E ricordandoci che a maggior ragione “la responsabilità c’è quando si ha libertà di scelta”.
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