Il Wahhabismo alle radici dell’Isis

 

La recente ondata di attentati di matrice islamica in tre continenti ha riacceso le preoccupazioni dell’Occidente, che pare ricordarsi del pericolo latente del fondamentalismo solo quando colpisce al di fuori dei confini del cosiddetto Stato Islamico, entità sorta a cavallo fra Siria e Iraq a seguito delle conquiste militari dell’Isis. Una pericolosa sottovalutazione (che a volte sconfina in una complicità nemmeno troppo sotterranea) di un fenomeno con radici antiche che si sta rapidamente diffondendo, col rischio di diventare incontenibile, se non arginato per tempo

Il movimento jihadista noto come Isil, Isis, Is, Daesh o semplicemente Califfato, non nasce dal nulla, bensì si inserisce, con tutta la sua carica di fanatismo e brutalità, all’interno della corrente islamica plurisecolare nota come Wahhabismo, tuttora diffusa nel mondo musulmano, anche se finora aliena da simili forme di violenza esasperata. Un aspetto del mondo musulmano da approfondire, per capire cosa stia succedendo e, soprattutto, quali possano essere gli sviluppi di una situazione che pare incancrenirsi progressivamente.

Il Wahhabismo nasce, circa a metà del 1700, dalla predicazione di Muhammad ibn Abd al-Wahhab, una sorta di Savonarola della penisola arabica, che contestava aspramente il decadimento morale nel quale stava scivolando l’islam, in particolare gli eccessi dei nababbi che dilapidavano tempo e ricchezze in dissolutezze di ogni genere. La critica sarebbe probabilmente rimasta a livello di condanna morale se non avesse incrociato gli interessi di Muhammad Sa’ud, fondatore dell’omonima casata che tuttora regna sull’Arabia Saudita, alla quale ha esteso il nome. Approfittando dell’influenza e dell’attrattiva che il credo ultra- ortodosso e radicale di Wahhab esercitava sulla maggioranza della popolazione, la grande massa esclusa dall’accesso alla ricchezza, l’emiro Sa’ud iniziò a dare corpo al proprio progetto politico di conquista della penisola arabica, a partire dai luoghi santi, occultando la sua brama di potere dietro alibi religiosi, assai efficaci per accendere gli animi e smuovere eserciti di fanatici, strumentalizzandoli per l’ottenimento di fini ben diversi dalla purificazione della dottrina, quali il controllo del territorio e delle sue risorse e l’eliminazione di possibili avversari e concorrenti, sia interni che esterni.

Inizialmente stroncato dalla decisa reazione dell’Impero Ottomano, che intendeva mantenere il ferreo controllo sulla regione, il Wahhabismo attraversò in maniera sotterranea tutto l’800, per riemergere all’inizio del XX secolo grazie all’appoggio dei britannici, che tramavano per subentrare agli ottomani nel controllo dei territori arabi. Un disegno completato grazie al tracollo dello stesso Impero Ottomano, negli anni a cavallo della Grande Guerra, che lasciò campo libero all’espansione dei Sauditi, i quali nell’arco di qualche lustro assoggettarono l’intera penisola arabica, compresi i sacri luoghi di culto di Mecca e Medina. In tal modo, si consolidò dal lato politico l’alleanza con la Gran Bretagna, alla quale presto si sarebbero affiancati gli Stati Uniti, mentre dal lato religioso si ebbe l’affermazione del Wahhabismo, assunto come religione di stato. Forti di questa alleanza strategica, che permetteva di mantenere il controllo sulle enormi e vitali risorse di combustibili fossili a disposizione dai Sauditi, gli Stati occidentali chiusero un occhio su tutto il resto, compreso il potenziale di deriva fondamentalista insito nella corrente Wahhabita che dominava sull’Arabia e non solo.

Un corto circuito geo-strategico del quale stiamo iniziando a pagare le conseguenze, a partire dagli attentati dell’11 Settembre fino all’attuale boccone avvelenato dell’Isis, un cancro ormai saldamente radicato in Medio Oriente con metastasi letali sparse nel Maghreb, nell’Africa sub-sahariana e nella stessa Europa. Oggi come allora, il verbo fondamentalista fa presa su masse sempre più ampie di diseredati ed esclusi, tagliati fuori dal miraggio del benessere consumistico e quindi attratti, per contrappasso, da una visione oscurantista e nichilista, violentemente “purificatrice” di ogni orpello materiale, e di qualunque cosa o persona si discosti anche solo minimamente da quella che viene ritenuta l’ortodossia. I primi a pagare il prezzo di questa follia fanatica sono ovviamente i più vicini, sia in termini geografici che culturali, come gli stessi musulmani sciiti, vittime di persecuzioni nei territori controllati dal sedicente Califfato e di attentati negli altri Paesi, come accaduto nella moschea di Kuwait City durante la preghiera del venerdì di Ramadan, un vero e proprio sacrilegio. Del resto, il Kuwait, con circa un terzo della popolazione di fede sciita e appena il due per cento di wahhabiti, viene anch’esso catalogato fra il novero degli “infedeli”, quasi al pari di quanto avviene per l’Occidente nel suo complesso.

Un aspetto che tendiamo spesso a dimenticare, occupati come siamo a rinchiuderci sempre più nella “Fortezza Europa”, illudendoci che basti chiudere le porte per sfuggire ai drammi che funestano il mondo a due passi da noi. Atteggiamento miope e perdente, come del resto l’attaccamento pervicace a un modello economico ostinatamente basato sui combustibili fossili, che ci costringe a mantenere un rapporto di interesse con l’Arabia Saudita, patria di Osama bin Laden e di quasi tutti i kamikaze dell’11 Settembre, nonché principale finanziatrice dell’Isis a suon di petrodollari, assieme al Qatar, entrambi Paesi con alto tasso di adepti del Wahhabismo.

Un rompicapo complesso e apparentemente insolubile, dove interessi economico-strategici intrecciati e contrapposti hanno finora impedito di trovare una soluzione adeguata al dilagare della violenza fondamentalista, salvo spargere lacrime di coccodrillo in occasione di stragi ormai ricorrenti o, peggio, strumentalizzare preoccupazioni e paure dell’opinione pubblica per ricavarne vantaggi in termini di consensi politici ed elettorali.

Riccardo Graziano 28/6/2015

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