Accordo sul clima alla Cop 21 di Parigi
All’ultimo giorno di trattative, i partecipanti alla Cop 21, la Conferenza delle Parti sul Clima, hanno siglato a Parigi l’accordo che dovrebbe consentire il contenimento delle emissioni di gas serra, limitando il surriscaldamento globale e i conseguenti mutamenti climatici. Un accordo epocale, un segnale forte a tutto il mondo, arrivato proprio quando la comunità scientifica e il mondo ambientalista ammonivano sull’approssimarsi del punto di non ritorno, oltrepassato il quale i cambiamenti sarebbero diventati irreversibili, mettendo a rischio gli equilibri ecologici e impattando pesantemente sui nostri sistemi socio-economici e sui nostri stili di vita. Tuttavia, al di là della comprensibile soddisfazione per il raggiungimento di un accordo tanto sofferto quanto ineludibile, resta d’obbligo l’uso del condizionale, perché ora viene il difficile, cioè tradurre tutti i buoni propositi siglati sulla carta in una serie di politiche e provvedimenti concreti, in grado di garantire uno sviluppo sostenibile e duraturo, senza devastare ulteriormente un pianeta già duramente provato da decenni di sfruttamento irresponsabile.
I punti salienti dell’accordo sono tre: limitare l’innalzamento della temperatura globale entro 1,5° centigradi; istituire un fondo da 100 miliardi di dollari per aiutare i paesi in via di sviluppo a riconvertirsi verso tecnologie più pulite; verificare ogni cinque anni la coerenza del percorso e dei risultati ottenuti. Il primo di questi obiettivi è senz’altro il più ambizioso: gli esperti avevano indicato in 2° centigradi la soglia limite di aumento da non oltrepassare, risultato che all’inizio della Conferenza appariva quasi irraggiungibile, mentre ora l’accordo punta addirittura a un valore di mezzo grado più basso, apparentemente un’inezia, in realtà l’equivalente di milioni di tonnellate di anidride carbonica in meno da riversare nell’atmosfera. Positivo anche il riconoscimento della maggiore responsabilità dei Paesi sviluppati, coloro che fino a oggi hanno prodotto la maggiore quantità di inquinamento e dovranno quindi farsi carico di finanziare lo sviluppo ecosostenibile delle nazioni in via di industrializzazione, indirizzandole verso soluzioni “verdi” sia mediante il trasferimento di tecnologie che con aiuti economici. Infine, fondamentale la previsione di momenti di verifica quinquennali, in grado di monitorare i progressi ottenuti ed eventualmente adeguare le strategie. Questi provvedimenti, inseriti nella cornice di un accordo veramente globale, che ha visto la partecipazione sostanzialmente di tutto il mondo, e che ha definitivamente ribadito l’ineludibile necessità e urgenza di contrastare il surriscaldamento del pianeta, sono senz’altro gli aspetti positivi di un’intesa raggiunta a fatica, dopo estenuanti trattative dovute a differenze sostanziali fra opposti interessi economici, politici e strategici.
Tuttavia, occorre sottolineare anche i limiti e le mancanze di un accordo per altri aspetti debole, che rappresenta senz’altro un fondamentale punto di partenza condiviso, ma lascia ancora troppi punti irrisolti e ambigui per poter essere salutato come la soluzione destinata a “salvare il Pianeta”, come è stata descritta in tanti interventi e comunicati fin troppo trionfalistici. Anzitutto, le tempistiche e modalità di attuazione: l’accordo verrà firmato ufficialmente a partire dall’aprile 2016 ed entrerà in vigore non prima del 2020, dopo essere stato ratificato da almeno 55 Paesi responsabili di almeno il 55% delle emissioni globali, un tempo lunghissimo rispetto all’urgenza delle questioni in ballo, senza contare il rischio di dover dipendere da interessi, umori e capricci dei potenziali sottoscrittori, con la possibilità di ritrosie e retromarce dovute anche solo a cambi di governi o pressioni di lobby influenti, quali quelle legate alle fonti fossili, per intenderci. Inoltre, l’intesa si basa sulle “Intended Nationally Determined Contribution” (Indc, le azioni che le singole nazioni intendono intraprendere), ovvero su una sorta di “autocertificazione” dei vari Stati circa i provvedimenti che vorranno adottare, attualmente gli stessi che avevano portato gli esperti a pronosticare un aumento delle temperature eccessivo, stimato intorno a 2,7° centigradi, e che verranno revisionati solo nel 2018. Un impegno al momento insufficiente, dunque, ma soprattutto la mancanza di un unico indirizzo globale condiviso, assai più auspicabile ed efficace di una disomogenea sommatoria di strategie nazionali. Specie tenendo conto che, per mantenere l’impegno di contenere il riscaldamento entro 1,5° centigradi, si dovrebbero abbattere del 90% le attuali emissioni di Co2, il che comporta una trasformazione radicale dei nostri sistemi economici e produttivi, risultato assai difficile da ottenere procedendo in ordine sparso, senza una strategia globale. Ancora, nel testo definitivo è scomparso, rispetto alle versioni precedenti, il concetto fondamentale di “decarbonizzazione”, sostituito dalla generica locuzione di “bilancio tra emissioni antropogeniche e rimozione di queste da parte dei cosiddetti sink biosferici nella seconda metà del secolo”. Una differenza non da poco: traducendo, significa rinunciare alla progressiva e definitiva eliminazione delle fonti fossili (carbone, petrolio, gas), limitandosi a diminuire la quantità di emissioni di anidride carbonica fino a livelli tali da poter essere riassorbiti, fra oltre trent’anni, dagli oceani e dalle foreste residuali, se nel frattempo non le avremo già abbattute tutte, rischio non remoto, visti gli attuali ritmi di deforestazione. Per quanto riguarda invece i fondi da mettere a disposizione dei Paesi in via di sviluppo (peraltro giudicati insufficienti), mancano indicazioni chiare sulle modalità e tempistiche di erogazione. Inoltre, si riconosce la possibilità di valutare i danni che i cambiamenti climatici infliggono ad alcuni Paesi (in particolare gli arcipelaghi del Pacifico e le nazioni caraibiche), senza tuttavia prevedere l’individuazione di responsabilità o l’assegnazione di indennizzi. Ancora, vengono escluse dall’accordo le emissioni dei trasporti marittimi e aerei, argomentando che, in quanto in larga parte internazionali, sarebbe stato arduo computare la ripartizione fra le singole nazioni: una mancanza non da poco, visto che i due comparti sommati “pesano” in termini di rilascio di Co2 quanto Germania e Gran Bretagna messe insieme.
Nel complesso, dunque, si delinea un accordo annacquato dalle resistenze di alcune nazioni e, soprattutto, dalla pressione delle lobby delle energie fossili, con l’assenza di strategie globali e molti punti ambigui o palesemente insufficienti, ma comunque un punto di svolta fondamentale, l’inizio di un percorso da perseguire con determinazione e coerenza, per rimettere in salute il pianeta e renderlo più vivibile per questa generazione e per quelle future.
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