Spagna, addio al bipartitismo
E’ una Spagna completamente diversa quella che esce dal voto del 20 dicembre. Per la prima volta una tornata elettorale – la dodicesima dal 1977, anno del ritorno alla democrazia – non fa emergere un netto vincitore. Il Partito popolare (Pp), del premier Mariano Rajoy, è primo ma ottiene appena il 28 per cento e 123 seggi. Un saldo negativo rispetto al 2011 di ben 63 seggi. Il Partito socialista (Psoe), guidato da Pedro Sanchez, dopo quattro anni passati all’opposizione supera di poco il 22 per cento, conseguendo 90, venti in meno della tornata precedente. Gratificati dalle urne invece i due debuttanti: Podemos, di estrema sinistra, che con il 20,7 per cento ottiene 69 seggi, e Ciudadanos, di marca centrista, che sfiora il 14 per cento e conquista 40 seggi. Più o meno stabili i partiti nazionalisti (catalani, baschi, galiziani, ecc..); mentre si riduce ai minimi termini, 2 seggi, Unità popolare, sinistra radicale che patisce la concorrenza di Podemos.
Questo il quadro, in una tornata che, rispetto a quattro anni fa, registra una maggior partecipazione al voto: 73 per cento contro 69. Sia il Partito popolare, sia il Partito socialista, le due grandi forze, di destra e sinistra, su cui da sempre è fondato il bipartitismo spagnolo, sono ben lontani dalla maggioranza assoluta, situata a 176 seggi. Per governare la Spagna sarà quindi necessario un governo di coalizione. Molte le possibilità. I numeri dicono che il Pp non riesce a comporre una maggioranza neppure con Ciudadanos, il cui leader ha peraltro escluso di votare la fiducia ad un esecutivo guidato da Rajoy. Forse sono ancora schermaglie di stampo elettorale, ma è chiaro che il cammino dei popolari si fa estremamente complicato. Qualche spazio di manovra in più viene concesso al Psoe che, alleandosi con Podemos e con i partiti nazionalisti, è in grado di far nascere un governo di sinistra, sensibile ai richiami autonomistici delle varie regioni. La questione catalana, con Barcellona in preda alla febbre indipendentista, crea però notevoli problemi poiché i socialisti sono disponibili ad una riforma federale ma, giustamente, non vanno oltre. Insomma, nessun referendum come invece auspica Podemos, che è contro l’indipendenza ma che, in nome della democrazia, vorrebbe una consultazione alla scozzese.
Difficile da comporre anche una maggioranza che, escludendo i nazionalisti, tenga insieme Psoe, Podemos e Ciudadanos. I due novizi del Congresso, non intendono governare insieme, in particolare perchè il centrismo di Ciudadanos pare poco compatibile con la radicalità espressa da Podemos. Resta infine – ultima, ma non trascurabile, ipotesi – una grande coalizione tra Pp e Psoe, cui si aggiungerebbe Ciudadanos. Anche se è forte la distanza tra socialisti e popolari, la politica resta pur sempre l’arte del possibile. Non a caso il premier Rajoy, sembra intenzionato a muoversi in questa direzione.
L’investitura del governo, dopo la nomina del presidente da parte del Re, deve avvenire a maggioranza assoluta solo alla prima votazione. Dopo è sufficiente una maggioranza semplice, ossia che si ottengano più a voti a favore che contro. Ed è questo che pare lo scenario più probabile.
In ogni caso, siamo di fronte ad una Spagna non tanto dissimile dall’Italia della Prima repubblica con governi di coalizione, frutto di lunghe e laboriose trattative. Non è peraltro da escludersi che possa nascere un governo dal quale venga esclusa la prima forza in voti (il Pp), scalzata da un’intesa tra i secondi e i terzi arrivati.
Staremo a vedere. Di certo la Spagna di oggi non è più bipartitica. Risulta meno stabile politicamente, ma forse, e qui sta la vera opportunità scaturita dalle urne, anche più capace di dialogare. Del resto, il dialogo è l’essenza della politica, come elemento vitale della tenuta delle istituzioni. Forse, proprio questo confronto, a tutto campo come mai era accaduto in passato, potrebbe rivelarsi assai fecondo. Quel che oggi pare un problema, potrebbe essere la soluzione ai molti problemi che affliggono il sistema politico spagnolo.
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